di Guido Tabellini
[Nell’intervista del 31 ottobre al Sole 24 Ore] il presidente Draghi ha sottolineato che la BCE è determinata a centrare il suo obiettivo di un’inflazione nel medio termine poco sotto il 2 per cento. È importante che lo sia. È dal 2013 che l’inflazione si è allontanata dall’obiettivo, ed è ormai più di un anno che l’area euro convive con un’inflazione intorno a zero. Un’inflazione così bassa ostacola il rientro dal debito e il recupero di competitività dei paesi del Sud Europa (perché prezzi e salari sono rigidi verso il basso), e ha molti altri inconvenienti.
Eppure, questi costi non sono sempre evidenti all’opinione pubblica. Quando l’inflazione è troppo alta, i cittadini se ne accorgono subito, perché l’effetto sul costo della vita è immediatamente visibile. Un’inflazione prossima a zero è altrettanto dannosa, ma più subdola. Vi è il rischio di essere troppo compiacenti, accettando di restare a lungo in questa situazione. Pertanto ha fatto bene Mario Draghi a ribadire la sua determinazione.
Nell’intervista, il presidente della BCE ha anche ricordato che nella riunione di dicembre sarà discussa l’efficacia relativa delle varie opzioni disponibili alla banca centrale. Speriamo che siano davvero considerate tutte le opzioni, e non solo l’estensione dell’acquisto di titoli o un’ulteriore riduzione dei tassi di interesse. Vi sono azioni anche più radicali con cui la banca centrale può stimolare la domanda aggregata e far salire i prezzi e le aspettative di inflazione.
I trattati europei impediscono alla banca centrale di finanziare direttamente un’espansione fiscale. Ma alcuni degli effetti positivi sulla domanda aggregata potrebbero essere ottenuti con misure analoghe dal punto di vista economico. Ad esempio, anziché finanziare con moneta un taglio delle imposte, la BCE potrebbe decidere di stampare più moneta, versandola direttamente sui depositi e sui conti correnti postali dei cittadini. Una parte di questo incremento di ricchezza nominale sarebbe risparmiato, ma una parte verrebbe speso (soprattutto dai consumatori a più basso reddito o con minori possibilità di accedere al credito). Oppure, la BCE potrebbe acquistare titoli perpetui (cioè con scadenza illimitata) appositamente emessi dalla BEI per contribuire a finanziare investimenti pubblici con esternalità positive ma che non producono flussi di cassa futuri (ad esempio, l’edilizia scolastica) – e che quindi difficilmente potrebbero trovare finanziamenti sui mercati.
Senza violare né la sostanza né la forma dei trattati europei, inoltre, la BCE potrebbe cambiare le regole che si è data nella conduzione della politica monetaria. Oggi l’obiettivo della BCE è un tasso d’inflazione poco sotto il 2 per cento nel medio periodo – un obiettivo piuttosto vago, che come vediamo consente di tollerare lunghi periodi con l’inflazione intorno a zero, e soprattutto che potrà indurre a rialzare i tassi non appena l’inflazione prevista tornerà ad alzarsi, per evitare di sforare il tetto del 2 per cento.
Un’alternativa, suggerita da diversi economisti, è di porsi come obiettivo un sentiero di crescita del livello generale dei prezzi (o meglio ancora del reddito nominale), anziché per il tasso di inflazione. Ciò costringerebbe automaticamente la politica monetaria ad alzare temporaneamente il suo obiettivo d’inflazione tutte le volte che i prezzi scendessero sotto il sentiero prestabilito. Ad esempio, a fine 2015 i prezzi dell’area euro saranno di circa il 4 per cento più bassi di quanto sarebbero stati se dal 2013 in poi la BCE avesse centrato il suo obiettivo. Per riportare i prezzi sul sentiero di crescita desiderato, quindi, l’inflazione cumulata nei prossimi tre anni dovrebbe essere di altrettanto più alta rispetto al tetto del 2 per cento, dando spazio alla banca centrale per continuare più a lungo una politica monetaria espansiva.
O ancora più semplicemente, e come suggerito da economisti come Paul Krugman e Olivier Blanchard, l’obiettivo di inflazione potrebbe essere alzato sopra il 2 per cento, per segnalare maggiore determinazione nel combattere la stagnazione dei prezzi ed evitare in futuro le trappole deflazionistiche. Queste modifiche alle regole di politica monetaria sarebbero perfettamente compatibili con i vincoli europei, e potrebbero avere un effetto immediato di stimolo alla domanda aggregata, sia attraverso una svalutazione del tasso di cambio che agendo direttamente sulle aspettative di una maggiore inflazione futura.
Non sappiamo se anche queste opzioni radicali saranno prese in considerazione nelle prossime riunioni della BCE. E se lo saranno, quasi certamente verranno scartate perché troppo azzardate dal punto di vista giuridico o troppo controverse dal punto di vista politico. Eppure, dal punto di vista economico, si tratterebbe di innovazioni probabilmente più efficaci e meno rischiose rispetto all’inazione. Oltre ai danni prodotti da un’inflazione troppo bassa, infatti, anche la liquidità immessa sui mercati attraverso l’acquisto di titoli non è priva di inconvenienti, perché alimenta bolle speculative o l’assunzione di rischi eccessivi.
Come dimostra l’esperienza del Giappone, una volta che si è caduti nella trappola di un’inflazione prossima a zero, non è facile uscirne. Ma le difficoltà non sono solo tecniche. Anche i vincoli istituzionali e l’atteggiamento conservatore dei banchieri centrali sono parte del problema. Speriamo che, quando discuteranno delle opzioni future, i banchieri centrali europei abbiano un atteggiamento aperto, e siano altrettanto consapevoli di quanto lo è il presidente Draghi dell’urgenza di far risalire l’inflazione.
Pubblicato sul Sole 24 Ore l’1 novembre 2015.