Quando la Russia ha cominciato i suoi raid aerei sulla Siria il 30 di settembre, l’Ucraina era ancora in cima alla lista delle preoccupazioni della diplomazia internazionale, specialmente per gli echi della Guerra Fredda che la crisi pareva rievocare. Si temeva che l’acuirsi del contrasto siriano tra i russi da una parte e gli americani e i loro alleati europei dall’altra potesse generare effetti negativi per le prospettive di pace nel Paese.
Non è successo niente di tutto ciò. L’Ucraina e suoi guai sono sempre lì, ma non sembrano ormai importare molto a nessuno – nemmeno ai russi, che ora sono impegnati nella tremenda fatica di mantenere il ritmo della guerra aerea in Siria contro gli oppositori di Assad. Infatti, ad analizzare i dati forniti dal Ministero della Difesa russo, ci si accorge che mentre fino a poche settimane fa le missioni d’attacco condotte dalle forze aeree di Mosca arrivavano anche a 88 al giorno, la cadenza è ormai scesa a 55 sortite quotidiane, probabilmente per problemi di logistica e d’usura umana. Il disinteresse generale per l’Ucraina è forse un segno positivo. Il fatto di non coinvolgere più la “faccia” delle parti che sponsorizzano il conflitto potrebbe agevolare il raggiungimento di un accordo, almeno tacito, per cominciare a sanare la ferita. La poca attenzione è anche un segno di stanchezza. Le guerre costano, molto, e non solo in soldi.
C’è un prezzo da pagare pure in termini dell’effetto sulle economie, sugli uomini, sui mezzi e sulla disponibilità strategica di muoversi su altre scacchiere. Così, l’impegno di Mosca in Siria ha distolto non solo l’attenzione occidentale dall’Ucraina, ma anche quella russa. Entrambe le parti in causa nel Donbas – Kiev e i separatisti filo-russi – hanno cominciato a ritirare l’artiglieria pesante. Scontri quotidiani e bombardamenti sono quasi cessati. Per sfinimento più che altro, l’accordo “Minsk II” per il cessate il fuoco comincia a essere rispettato nei fatti. Non è scoppiata la pace. La gioia e l’amore fraterno scarseggiano. I separatisti temono molto che la Russia ora li abbandoni, mentre tra i volontari di Kiev è scemata l’aura di eroismo patriottico che una volta teneva su il morale e comincia perfino a serpeggiare il sospetto che il loro governo li abbia in qualche modo traditi. Colpi di testa “autonomi” da militari irrequieti da ambe le parti sono dunque ancora possibili. L’economia ucraina, un po’ a sorpresa, dà deboli segni di sopravvivenza. Il budget dello Stato è leggermente in positivo – un miracolo della contabilità – e la Banca Mondiale prevede un ritorno alla crescita per il 2016, per quanto solo sull’ordine dell’un percento.
Resta soprattutto aperta la questione del destino del Donbas, la (una volta) ricca regione industriale e mineraria al confine est del Paese, contesa tra le truppe di Kiev e i separatisti appoggiati da Mosca. Stefan Hedlund, un esperto di affari russi all’Università di Uppsala, riferisce che la devastazione del tessuto produttivo del Donbas è tale che c’è chi a Kiev propone semplicemente di regalarlo alla Russia, di modo che tocchi ai nemici pagare il conto per rimetterlo in sesto. I cinici occidentali, che calcolavano di lasciare i russi impantanati in una costosissima palude, potrebbero non dispiacersene più di tanto.
James Hansen è direttore di Nota Diplomatica, dove è stato pubblicato questo commento. E’ giunto in Italia nel servizio diplomatico USA ed è rimasto come corrispondente per l’estero (International Herald Tribune, Daily Telegraph). Poi capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e di Telecom Italia. È titolare di Hansen Worldwide, uno studio di consulenza in relazioni internazionali con sede a Milano.
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