di Roberto Musacchio
Ci si sono messi in cinque, i cinque presidenti, per scrivere un testo che apra una discussione sullo stato della “governance” dell’area euro. Già la cinquina dice qualcosa, o anche molto, sullo stato istituzionale, e democratico, della UE. Il mandato a riflettere ed elaborare sullo stato dell’Unione nella parte che usa la moneta unica è arrivato dal Consiglio e in realtà riguardava solo quattro presidenti. Anche qui la composizione parla da sola.
A proporre soluzioni vengono chiamati il presidente della Commissione, quello del Consiglio, ma poi anche quello della BCE, (una banca!) e dell’Eurogruppo, cioè una struttura di assai difficile definizione istituzionale. Strada facendo si è aggregato il presidente del Parlamento europeo. A significare che si avverte qualcosa di strano in una architettura siffatta e, peraltro, praticando una sorta di strappo alla regola che non prevede l’associazione del PE stesso a tali livelli di istruttoria dei processi decisionali.
D’altronde tutto il modo con cui si è andata edificando appunto la “governance” è indicativo di un processo che strada facendo ha preso aspetti sempre più abnormi se solo si pensa ad una normale realtà democratica. A partire dal nome stesso, governance, che è qualcosa di diverso da quello di governo e sa maledettamente di tecnocratico. Se guardiamo solo all’ultima fase, quella in cui per affrontare la crisi, si è pensato appunto di rafforzare la governance, vediamo come si è realizzata una impalcatura che fatica a trovare modelli analoghi nel mondo e a corrispondere a criteri minimi di democrazia. Dal six-pack al two-pack, passando per il fiscal compact, si è approntata una cabina di comando, la troika, e regole d’ingaggio a dir poco arbitrarie. Mischiando peraltro metodi di approvazione diversi, da quello comunitario a quello intergovernativo, a seconda di cosa sembrava far comodo. Tutto assai discutibile e, infatti, messo in discussione. A partire ad esempio dal parere dell’avvocato generale della Corte di giustizia che considera improprio il ruolo che si è dato alla BCE, nell’essere cofirmataria dei cosiddetti memorandum.
Qualcuno potrà dire che il fine giustifica i mezzi e che la crisi chiedeva misure straordinarie per poter essere affrontata. Tesi assai discutibile sia per il vulnus democratico di tale machiavellismo, sia per gli effettivi risultati prodotti. Tanto è vero che gli stessi cinque presidenti sono chiamati in campo anche per questo. La crisi della UE appare ormai politicamente e socialmente evidente. La crisi economica e sociale tutt’altro che superata. Le tensioni tra i paesi apertissime. E la questione migranti fa da detonatore. Naturalmente questa crisi non è affrontabile guardando solo a ciò che è accaduto nell’ultimo periodo. Essa rimanda all’intero processo di realizzazione della UE e da lì occorre ripartire se si vuole effettivamente porre mano. Sarebbe un vero e proprio suicidio restare infatti all’interno delle logiche fin qui dominanti che hanno visto un mix tra tendenze tecnocratiche iscritte nel filone della globalizzazione liberista a traino finanziario e l’intergovernativismo sempre più a matrice germanocentrica.
Anche gli scambi più recenti avvenuti tra la Merkel ed Hollande, per parlare di ciò che resta dell’ormai esausto asse franco-tedesco, dicono di una povertà assoluta di dibattito strategico. Per non parlare di come si è affrontata la questione greca, pensando di rispondere ad una domanda di ridiscussione delle politiche economiche e degli assetti democratici brandendo la clava della Grexit. E, come ho già detto, il dramma dei migranti rende evidente tragicamente a cosa si è ridotta l’idea di Europa. Guai dunque se si andasse avanti così. Se si assistesse ad un ulteriore gioco delle parti tra una Francia in cerca di rilancio e una Germania in cerca di ulteriore consolidamento di un ruolo di supremazia che, peraltro, la sta portando a configgere con gran parte del resto del mondo globalizzato. Dovrebbe essere ormai evidente che o l’Europa cambia o rischia l’implosione.
Ma cosa significa cambiare? Non c’è dubbio che il rapporto dei cinque presidenti sta in questa contraddizione. Avverte un bisogno ma pecca, mortalmente, di continuismo. Porsi l’obbiettivo di rafforzare la governance, questa governance e dunque anche questa politica, significa rafforzare in realtà le ragioni della crisi. Che sono di due tipi.
L’angustia di una politica economica e sociale affidata a una serie di ideologismi quali il liberismo e il monetarismo e, in concreto, succube sia del mercato finanziario globalizzato sia dell’egemonismo mercantilistico tedesco. Angustia che si è fatta tragica con l’austerità. E che lungi dal far avanzare l’armonizzazione ha prodotto squilibri economici e sociali sempre più marcati e strutturali. Tra cui quello dei surplus esportativi tedeschi è tra i più deflagranti e che pure dovrebbe essere corretto a norma delle stesse regole che ci si è dati ad esempio con il regolamento MIP (Macroeconomic Imbalances Procedure), che però non si applica su questo. A dire che, come nella Fattoria degli animali di Orwell, in questa UE c’è qualcuno più uguale di altri.
E questo tema orwelliano ci dice della seconda ragione di crisi: la democrazia negata. Che non è mancanza di qualcosa che ancora non c’è ma di qualcosa in realtà di non previsto. Qui, come dicevo, va affrontato un processo che purtroppo viene da lontano. La costruzione di quella che sarà la UE ha marciato parallela a quella degli Stati democratici del secondo dopoguerra. Ma mentre in essi si è riflessa l’azione democratica agita dai conflitti sociali e dai grandi soggetti della partecipazione non altrettanto è avvenuto nella sfera europea. Essa è alfine rimasta confinata tra un europeismo idealistico e quello, poi prevalente, di un funzionalismo segnato da una sorta di compromesso tra tecnocrazie e intergovernativismo che ha prodotto l’“Europa reale”.
È mancata, drammaticamente, una componente democratica e di massa, che operasse sul livello europeo un ruolo analogo a quello esercitato nella costruzione degli Stati. Basta vedere come sia ben difficile parlare di un movimento operaio europeo o di veri partiti democratici europei per avere conferma di questa realtà storica. Sta di fatto che non si è ingaggiata una battaglia storica per una democrazia europea e che ciò diviene gravissimo ora che le stesse democrazie nazionali vengono messe in crisi dai processi in atto. Chi, come chi scrive, è convinto che non c’è nessun neosovranismo che possa consentire di ripristinare la democrazia e di affrontare temi come quello dei diritti dei migranti, cioè di una cittadinanza universale, e di un contrasto radicale al liberismo globalizzato, ha il dovere di provare a mettere in campo ciò che finora è mancato e cioè una lotta di massa per un’altra Europa.
Non sarà certo il dibattito sul testo dei cinque presidenti ad essere risolutivo. Eppure sarebbe un’altra sconfitta se non vi fosse neanche su questo una discussione democratica, nelle istituzioni e nella società. Il rischio è che si proceda ad un ulteriore livello di comando, come un ministro delle Finanze europeo, esecutore dell’austerità e degli interessi forti nazionali e di classe peraltro senza nemmeno una politica fiscale e risorse europee. Cosa servirebbe invece? Una rottura del quadro esistente e la realizzazione di un nuovo assetto a base parlamentare e democratica. Un assetto che, dal mio punto di vista, non deve frammentare la UE tra area euro e gli altri ma procedere a una generale democratizzazione, con un cambio complessivo delle politiche e un obbiettivo comune di armonizzazione. Un PE eletto su base di liste europee, e dunque con la costruzione di veri corpi intermedi europei, con funzioni legislative e di elezione e indirizzo degli esecutivi, di indicazione a organi quali la BCE e sui temi della moneta e di scelta sulle politiche.
Con una nuova compartecipazione tra PE e parlamenti nazionali. Una nuova politica economica con al centro armonizzazione, occupazione, reddito di cittadinanza, welfare europeo ed economia ambientalmente connotata. Con un bilancio europeo diretto e consistente. L’uso della moneta unica come strumento di armonizzazione sociale ed economica e cioè ad esempio come aiuto alla costruzione di un salario europeo o come strumento di europeizzazione degli attuali debiti. Riduzione drastica della finanziarizzazione. Un ruolo di pace e cooperazione a partire dal Mediterraneo. Una idea di Europa non come super-Stato ma di via diversa alla globalizzazione. E perciò fondato su una idea di cittadinanza europea aperta e sociale. Propensa all’allargamento proprio perché portatrice di un’altra idea di globalizzazione e antidoto ai neo-nazionalismi rinascenti. Cioè veramente un’altra Europa, ma, a ben vedere, la sola idea possibile.
Pubblicato sul sito di Europa in Movimento.