Recep Tayyip Erdogan, il nuovo sultano turco, si è imposto anche in queste nuove elezioni. Qualche mese fa il risultato del voto popolare non gli era piaciuto, e dunque ha riportato il turchi alle urne spingendoli in tutti i modi a ridargli (almeno) la maggioranza assoluta. Il progetto è riuscito, anche se solo in parte: ha la maggioranza assoluta dei deputi, ma non quella dei voti e neanche quella dei 330 deputati che gli servirebbero per cambiare la Costituzione da solo. Ma a Erdogan basta trovare cinque voti per farlo, e probabilmente troverà i mezzi per convincere un manipolo di parlamentari a far diventare la Turchia un paese a regime sempre più autoritario nelle mani del presidente. Cioè lui stesso.
Non sono state elezioni libere, le violenze e la chiusura di una decina di testate giornalistiche colpevoli di essere critiche verso il presidente della Repubblica e/o il suo partito bastano a dimostralo. Almeno, non sono state elezioni libere secondo canoni occidentali e in particolare quelli stabiliti dall’Unione europea. Però da Bruxelles si saluta volentieri l’esito del voto, complimentandosi anzi per la grande presenza di elettori ai seggi. L’Europa è dunque ufficialmente pronta a “collaborare” con il nuovo governo turco, dice una nota.
Perché? Principalmente perché dialogando con Erdogan c’è la possibilità che la Turchia si tenga i circa due milioni e mezzo di rifugiati che ha al momento e forse anche quelli che potrebbero ancora arrivare, senza dunque lasciarli liberi di spostarsi verso i Paesi dell’Unione europea. Abbiamo cioè barattato i diritti dei cittadini turchi per un po’ più di tranquillità di quelli dell’Unione europea. Abbiamo fatto finta di non vedere, anche se uno studio sulla mancanza di libertà di stampa in Turchia è pronto Bruxelles da tempo, ma lo si è tenuto chiuso in un cassetto fino a dopo le elezioni, e quando uscirà sarà oramai troppo tardi perché le istituzioni europee possano decidere di fare qualcosa di conseguente. Troppo, e troppo in fretta ci si è affrettati a parlare di “collaborazione”. Dunque i diritti umani e politiche che l’Unione scrive di voler difendere diventano carta straccia.
Però c’è un’esperienza nel recente passato che amplia il campo della riflessione. Negli anni passati in Nord Africa c’erano delle dittature, come in Egitto e in Libia. L’Unione non ha mai fatto niente per superarle, anzi, era talmente distante dalla realtà di questi paesi che quando poi scoppiarono le primavere arabe a Bruxelles si scoprì di non sapere niente o quasi della vita civile di questi Paesi, e la cosa fu chiara quando dall’Europa non si sapeva che pesci prendere, con chi parlare, chi sostenere. Però, dal punto di vista funzionale, quello status quo era particolarmente apprezzato: era più facile negoziare, si sapeva chi fossero gli interlocutori, ci si potevano fare dei patti. Addirittura quei regimi aiutavano davvero a tenere a bada il terrorismo. Riuscivano anche a limitare notevolmente l’afflusso di immigrati, e qui si torna al tema della Turchia.
Dunque cosa vogliamo dall’Unione? Che risolva i nostri problemi immediati lasciando in secondo piano i principi morali e politiche che proclama di difendere anche al di fuori dai suoi confini? O siamo disposti a pagare un prezzo, almeno per alcuni anni, almeno finché non si sarà stati in grado di elaborare nuove strategie politiche? In sostanza: la real-politik all’estero vale di più dei nostri principi fondanti quando difende interessi “nostri”, immediati?