Ci sono notizie che magari non finiscono in prima pagina e non aprono dibattiti epocali, come quella sulla carne rossa per capirci, ma che più di molte altre danno il senso di una nuova grande ansa aperta dal fiume della storia. Su una di quelle, almeno così ci sembra, uscita qualche giorno fa, vogliamo provare a riflettere. Ma per cominciare bisogna fare un passo indietro di oltre 15 anni.
Siamo nel 1999, l’America si prepara al passaggio delle consegne del potere, che avverrà alla fine dell’anno successivo dal democratico anomalo Bill Clinton al repubblicano duro e puro George W. Bush. Tra le facce nuove dei repubblicani c’è una certa Condoleezza Rice, destinata poi a diventare la consigliera del presidente per la politica estera e nel secondo mandato addirittura Segretario di Stato. In Europa intanto il cantiere della moneta unica è alla posa dell’ultima pietra, parte l’euro per ora solo digitale suggellando la realtà del mercato unico senza frontiere, soprattutto per merci e capitali. Ai nuovi repubblicani tutto questo non piace, i giornali americani sono pieni di articoli preoccupati sulla “fortezza Europa” che potrebbe chiudersi alle esportazioni su cui gli Usa hanno campato dalla fine della guerra in poi e rappresentare una sfida al dollaro con la nuova moneta. In Europa c’è anche la Gran Bretagna, alleata storica, soprattutto militare, ma anche economico-finanziaria, dove Margaret Thatcher ha dovuto gettare la spugna dopo aver perso la sua battaglia contro l’euro. Ma forse non tutto è perduto e Condy, come la chiamano affettuosamente i colleghi di partito, lancia proprio ai britannici un invito che molti in campo repubblicano condividono: “se i britannici, con una voce sola, si facessero avanti e dicessero di voler entrare nel Nafta, non credo ci sarebbe nessuna obiezione.” Il Nafta di cui parla la Rice nell’intervista al londinese Telegraph del luglio 1999 è il North America Free Trade Agreement, firmato nel 1994 da Clinton con Canada e Messico per la libera circolazione di merci e capitali (ma non esseri umani). L’anno dopo, a pochi mesi dall’elezione di Bush, scende in campo un pezzo da Novanta dei repubblicani, con lo stesso argomento. Porte aperte di Washington per ammettere la Gran Bretagna nel Nafta, se facessero domanda, dichiara Phil Gramm, presidente della commissione del Senato per il Commercio Internazionale e molto vicino a Bush, “l’ingresso sarebbe garantito in poche settimane”.
Se al numero 10 di Downing Street ci fosse stato David Cameron forse avrebbe colto la palla al balzo, ma il non-euroscettico Tony Blair fece finta di non sentire. L’euro parte, ma l’Europa si rivela tutt’altro che la fortezza inespugnabile temuta dai repubblicani. L’11 settembre e le guerre in Medio Oriente spediscono tutto nel dimenticatoio fino alla grande recessione e soprattutto alla crisi del debito europeo scoppiata nel 2010-2011, che fa ripartire le spinte centrifughe in Europa. Fino alla decisione britannica di lanciare il referendum sull’appartenenza all’Unione, da tenersi entro il 2017. La Brexit torna un argomento di attualità, ed eccoci finalmente arrivati alla notizia di quelle che (forse) fanno la storia di cui parlavamo all’inizio. Mercoledì 28 ottobre 2015 gli Stati Uniti fanno sapere, per bocca del rappresentante al Commercio Michael Froman, che se la Gran Bretagna lascia la UE da parte di Washington avrà lo stesso trattamento di Cina, Brasile o India. “Deve essere assolutamente chiaro che non ci sarà nessun Free Trade Agreement”, ha detto Froman: Londra ha più voce al tavolo in quanto parte della UE, che è una grande entità economica. Gli Americani stanno stringendo gli accordi della TPP, la Trans Pacific Partnership che non comprende la Cina, e stanno trattando un simile accordo di libero scambio con l’Europa. Sono piattaforme, non accordi bilaterali, a cui i singoli paesi possono aderire anche in un secondo tempo. L’America di Bush cercava alleanze militari e supremazia economico-commerciale, quella di Obama cerca di vincolare aree sempre più vaste del mondo ad interessi comuni di tipo economico che dovrebbero rendere più difficile l’esplosione dei conflitti.
La cosa che colpisce della dichiarazione di Froman è che non è partita in risposta a qualche uscita di leader britannici. E’ una specie di avvertimento preventivo. Come dire: per giocare a questo gioco le rendite di posizione e le mosse opportunistiche sono armi spuntate. Insomma, ammesso che le parole di Froman rispecchino fedelmente la politica dell’amministrazione Usa, sembra quasi che gli Stati Uniti prendano l’Europa più sul serio di quanto non faccia l’Europa stessa. Per Bruxelles tenere Londra dentro è semplicemente vitale, ed avere un alleato come gli Stati Uniti per raggiungere questo obiettivo non è banale. E anche il fatto che vista da Washington l’Unione sia ormai più un’opportunità che una minaccia economica. Forse anche perché, in questi 15 anni di euro, di minacce all’economia americana ne ha portate davvero poche. Comunque sembra proprio una svolta epocale. Se questa è la nuova linea, vuol dire che l’America, quando ha bisogno di sponde, le cerca a Bruxelles e non in giro per le capitali del Vecchio Continente come faceva Bush per mettere insieme le sue sante alleanze. Per ora si parla di commercio. Domani anche di crisi e soprattutto di nuovo ordine in Medio Oriente?