Bruxelles – Se per molti la pesante battuta d’arresto subita nelle elezioni dello scorso giugno ha segnato “l’inzio della fine” di Recep Tayyp Erdogan, il diretto interessato non sembra affatto disposto a rassegnarsi. All’appuntamento elettorale di domenica, il presidente turco si presenta più agguerrito che mai, nel tentativo di riguadagnare quella maggioranza assoluta che a giugno ha perso per la prima volta dopo 13 anni e senza la quale non è più stato in grado di formare un governo di coalizione. L’unico modo per lui per uscire dall’impasse sarebbe quindi quello di stravincere: solo una vittoria schiacciante permetterebbe all’Akp di governare senza dovere ricominciare a cercare alleati. E solo la conquista dei tre quinti dei seggi consentirebbe a Erdogan di realizzare il suo vecchio sogno, quello di sostituire il sistema parlamentare con quello presidenziale che lo trasformerebbe in un “superpresidente” con poteri ancora maggiori.
Ma secondo tutte le previsioni, centrare un simile risultato sarà per Erdogan tutt’altro che semplice. E mancare il risultato per due volte in sei mesi, nonostante la violenza dell’offensiva lanciata dal leader turco contro tutti gli oppositori, potrebbe significare solo che il declino, a giugno solo intravisto, è ormai una realtà. I sondaggi danno l’Akp vincente, ma con la stessa percentuale di cinque mesi fa, quando il 40,86% dei voti gli ha permesso di occupare solo 258 seggi, troppo pochi per governare da solo. Ad ostacolare la sua corsa, come a giugno, sarà soprattutto il partito filo-curdo Hdp, che grazie al carisma del suo giovane leader Selahattin Demirtas è riuscito a superare l’elevata soglia di sbarramento (10%) e ad entrare in Parlamento con il 13,12% delle preferenze e 80 seggi. Ogni sforzo di Erdogan è dunque rivolto a tentare di screditare il partito, soprattutto accusandolo di connivenze con i guerriglieri del Pkk (considerati terroristi in Turchia) e distogliendo l’attenzione dalla vera causa dell’Hdp, che si batte soprattutto per i diritti e le libertà di tutti, compresi minoranze etniche e religiose, omosessuali (ha candidato il primo gay dichiarato, Baris Sulu) e lavoratori (chiede un salario minimo di 605 euro). Proprio nell’ambito di questo duello politico con Demirtas, secondo molti osservatori, è da leggere anche la violenza con cui Erdogan ha rilanciato la lotta contro i curdi del Pkk, bombardando le loro postazioni, uccidendo centinaia di persone e ponendo fine alla tregua firmata nel 2013. E sempre in questa chiave, secondo alcuni, non si può non leggere anche gli attentati che negli ultimi mesi hanno sconvolto il Paese, come quello di poche settimane fa ad Ankara, dove oltre 100 persone sono rimaste uccise durante una manifestazione pacifista che aveva tra i suoi promotori proprio l’Hdp.
Ma non è solo contro i curdi la guerra totale in cui Erdogan si è lanciato durante questa tesissima campagna elettorale. L’altro fonte è quello contro i media “ostili”, soprattutto quelli legati al nemico Fethullah Gulen, imam che dagli Usa guida una potente setta, che un tempo era alleato del presidente e oggi è accusato di avere ambizioni sovversive. L’ultimo episodio riguarda il gruppo editoriale Koza Ipek, che riunisce tv e giornali ostili al governo, a cui è stata imposta l’amministrazione controllata e per il cui amministratore delegato è stato spiccato un mandato d’arresto. La sede del gruppo è stata presa d’assalto dalla polizia con lacrimogeni e manganelli, tra le proteste della popolazione, due tv sono state oscurate e due quotidiani non sono usciti in edicola. Ma non si tratta di un caso isolato. Nel mirino anche diversi altri quotidiani e tv indipendenti, sette delle quali sono state chiuse a metà ottobre. Sotto processo anche decine di blogger o semplici utenti di social media che hanno osato criticare Erdogan sul Web. Nell’ultimo mese, il 90% delle trasmissioni in diretta della tv di stato Trt sono state dedicate al presidente e all’Akp (59 ore su 66), lasciando le briciole all’opposizione e appena 18 minuti all’Hdp.
Insomma Erdogan ha tentato il tutto per tutto ma, secondo i sondaggi, non riuscirà comunque ad imporsi come vorrebbe. Secondo le previsioni anche a questo turno l’Hdp non prenderà meno del 10-13% dei voti e altri due partiti entreranno con grande probabilità in Parlamento. Uno è il Chp, il Partito repubblicano popolare, primo partito di opposizione che alle elezioni del 2011 ha conquistato il 25,98% dei voti e a quelle del 7 giugno scorso il 24,96%. È un partito laico, fondato nel 1923 dal padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk. La sua campagna è stata incentrata sull’antagonismo con l’Akp, additato come partito corrotto a causa di uno scandalo esploso a dicembre 2013, che ha coinvolto ministri e loro familiari e sulla difesa della libertà di stampa. L’altro è l’Mhp, partito del movimento nazionalista, di destra e ultranazionalista. Alle elezioni parlamentari del 2011 ha ottenuto il 13,01% dei voti e a quelle del 7 giugno il 16,29%.
Nessuno dei due partiti, dopo le elezioni di giugno, si è reso disponibile per un governo di coalizione con l’Akp di Erdogan. Anche per questo è così importante, per il presidente turco, riguadagnare la maggioranza assoluta: “Se la nostra nazione sceglierà un governo monocolore, penso che creerà i presupposti per un ritorno al clima di stabilità e fiducia che abbiamo vissuto per 12-13 anni”, ha detto Erdogan, mentre il primo ministro, Ahmet Davutoglu, ha chiarito che anche in caso non si raggiunga una maggioranza assoluta, l’ipotesi di un nuovo ritorno alle urne è esclusa: la Turchia, ha detto Davutoglu, “non tollererebbe un nuovo voto”.