Roma – Nelle ultime settimane è cambiato qualcosa nella modalità con cui vengono gestite le identificazioni dei migranti che sbarcano sulle nostre coste. Medici senza frontiere, l’organizzazione internazionale che offre assistenza medica in aree di crisi ed è presente nel Cpsa (Centro di primo soccorso e accoglienza) di Pozzallo, in Sicilia, denuncia una accelerazione nelle pratiche di identificazione e un aumento dei casi di espulsione. L’organizzazione è preoccupata che questa nuova modalità diventi la prassi seguita negli hotspot, i ‘punti caldi’ dove i funzionari europei affiancheranno le autorità nazionali per l’identificazione dei migranti e la prima valutazione delle richieste di asilo. Ne abbiamo parlato con Stefano Di Carlo, capomissione di Msf in Italia.
Dottor Di Carlo, lei ha denunciato un cambiamento nelle pratiche di identificazione al Cpsa di Pozzallo, cosa sta succedendo?
Da un po’ di tempo ci sono state una serie di espulsioni sistematiche avvenute nel Centro di primo soccorso e accoglienza dove siamo presenti. Dal 24 settembre scorso, quando abbiamo registrato il primo caso, abbiamo documentato oltre un centinaio di persone espulse. Ora non so se sia cambiato qualcosa nelle pratiche di identificazione e foto segnalamento, ma abbiamo notato un aumento delle espulsioni.
È questo che vi preoccupa?
No, quello che ci preoccupa non è tanto l’aumento di espulsioni quanto le modalità secondo cui ciò sta avvenendo. Abbiamo visto che queste espulsioni avvengono in modo molto rapido dopo l’arrivo delle persone al centro. Questa situazione crea una serie di problemi, ad esempio, per l’assistenza medica. Il tipo di trattamento e di servizio medico che può essere offerto, a volte, viene inficiato perché i tempi sono troppo ristretti. Con tempi così brevi, e comunque senza un’oculata osservazione delle persone, viene espulso anche chi magari è sotto trattamento medico.
È già successo?
Si, è successo con una persona che era sotto trattamento per polmonite. È stata espulsa e mandata in strada prima che guarisse, e dunque è stata esposta a temperature e condizioni di vita complicate, non adeguate al suo stato di salute.
Una volta assegnato questo foglio di espulsione, quindi, le persone finiscono per strada?
Per quello che abbiamo potuto verificare nei casi in cui eravamo presenti, le persone venivano fatte uscire dal centro con un foglio di notifica dell’espulsione. Poi, parlando con loro fuori dal centro, abbiamo riscontrato una situazione di confusione. Non avevano ben capito il processo per il quale erano passati, pensavano di dover aspettare per essere trasferiti in un altro centro, oppure ci chiedevano cosa volesse dire l’ordine di espulsione che avevano ricevuto. L’impressione nostra è che non avessero neanche molto chiari i loro diritti e cosa fosse successo.
I problemi che segnala li avete registrati solo a Pozzallo – che ancora non è un hotspot con funzionari europei – o riguardano anche realtà come Lampedusa, dove la cooperazione con l’Ue per l’identificazione è già partita?
Per quanto riguarda la prima accoglienza siamo presenti solo a Pozzallo, quindi abbiamo potuto verificare solo lì. Non siamo in grado di dire se le condizioni siano diverse dove operano anche le agenzie europee.
Temete però che le modalità di valutazione accelerate che avete riscontrato a Pozzallo possano essere le stesse che verranno adottate negli hotspot?
Penso che lei abbia toccato il punto. Non vorremmo che queste pratiche diventassero la modalità di azione ordinaria. Noi vogliamo che in qualsiasi contesto di accoglienza, inclusi quindi gli hotspot che verranno messi a punto, ci siano delle pratiche adeguate che permettano alle persone di essere assistite da un punto di vista medico e di essere informate e capire bene i loro diritti. È importantissimo che il profilo umanitario di queste persone sia messo al centro. Per questo segnaliamo le problematiche che registriamo e chiediamo che vengano tenute in considerazione da chi si occupa dell’accoglienza a qualsiasi livello, che sia nazionale o europeo.