di Maurizio Franzini
Il 22 settembre è stato pubblicato negli Stati Uniti il nuovo, e atteso, libro di due Nobel per l’economia, George Akerlof e Robert Shiller, dal titolo (singolare) Phishing for Phools: The Economics of Manipulation and Deception, che potrebbe, un po’ liberamente, essere tradotto così: “A caccia di sprovveduti: l’economia della manipolazione e dell’inganno”.
La tesi centrale del libro è questa: l’idea di mercato che gli economisti hanno contribuito a diffondere è, quanto meno, parziale perché manca di considerare che il mercato (attraverso il profitto) fornisce un incentivo forte e sistematico a cercare vantaggi anche attraverso l’inganno e la manipolazione; peraltro, questi vantaggi si realizzano facilmente perché i consumatori possono essere manipolati e ingannati a causa sia delle limitate informazioni di cui dispongono sia delle falle che si aprono nella loro razionalità, – e che non sono né poche né occasionali come dimostrano numerose esperienze concrete (brillantemente documentate nel libro) e molti esperimenti di laboratorio.
Scrivono Akerlof e Shiller:
Raramente i mercati liberi e non regolati premiano… l’eroismo di coloro che si astengono dal trarre vantaggio dalle debolezze psicologiche o informative dei consumatori. La concorrenza fa sì che i manager che si autodisciplinano in questo modo tendono a essere rimpiazzati da altri con meno scrupoli morali. La società civile e le norme sociali attenuano questo “phishing” ma l’equilibrio di mercato è tale che se c’è un’opportunità di “phish” anche le imprese condotte da persone di specchiata integrità morale dovranno adeguarsi per competere e sopravvivere.
I due Nobel forniscono molteplici esempi concreti delle debolezze dei consumatori (e dei risparmiatori) sfruttate allo scopo di ottenere un profitto: da quelle che si manifestano quando non si ha il tempo di far funzionare bene la propria razionalità (e, ad esempio, si cede alla tentazione di ingurgitare dosi esagerate di calorie) a quelle che derivano dal tentativo di imporre a se stessi comportamenti che poi non si terranno (e questo, sempre per riprendere un loro esempio, avviene quando si sottoscrive un abbonamento mensile in una palestra dove si andrà pochissimo). Akerlof e Shiller sostengono che tutti noi abbiamo due tipi di preferenze: quelle che dovrebbero farci scegliere sempre ciò che “ci fa bene” ma che spesso non seguiamo e quelle che, invece, ci fanno scegliere ciò che “non ci fa bene” e che spesso seguiamo. E anche a queste ultime preferenze si rivolge chi, mosso dalla prospettiva del profitto, sa di poterle volgere a proprio vantaggio: vendendo ciò che altrimenti non verrebbe comprato; alterando i prezzi di ciò che verrebbe comunque comprato e così via. Dunque, potremmo dire che l’inganno è endemico al mercato; quest’ultimo non ha soltanto il volto del portatore di efficienza come nei testi di economia (e forse questo non lo ha affatto) ma anche quello, ben più spietato, dell’infaticabile approfittatore delle umane debolezze.
Il lettore non economista potrebbe considerare poco meno che banale questa conclusione e si potrebbe anche chiedere dove abbiano vissuto finora i due premi Nobel. Magari a quel lettore potrebbe venire anche in mente che se Akerlof e Shiller avessero visto un film di Totò del 1961 (Totò truffa) sarebbero arrivati molto prima a scrivere questo libro. In quel film, infatti, Totò formulava così quella che potremmo considerare la sua teoria del carattere endemico dell’inganno nel mercato: «Lo so, dovrei lavorare invece di cercare dei fessi da imbrogliare, ma non posso perché nella vita ci sono più fessi che datori di lavoro».
In realtà, porre la questione che sinteticamente chiamerò dell’inganno, a livello di teoria dei mercati è tutt’altro che banale: serve, se non altro, a dubitare della capacità della famosa mano invisibile di far scaturire il massimo benessere collettivo dalla ricerca individualistica del profitto. Dunque, serve a riconsiderare un aspetto non secondario della principale legittimazione dei mercati, anche di quelli che effettivamente conosciamo e non solo quelli “ideali” della teoria. Trarre da queste premesse, che meriterebbero ben altro approfondimento, la conclusione che la regolazione dei mercati, realizzata nelle forme che l’esperienza ci ha fatto conoscere, costituisca la soluzione del problema sarebbe davvero affrettato.
Nella stessa settimana in cui è stato pubblicato il libro di Akerlof e Shiller, è “esploso” il caso Volkswagen. Una straordinaria coincidenza si potrebbe dire. In realtà i casi di inganno (anche se di scala diversa) sono così frequenti che la tempestività del libro sarebbe stata sempre assicurata. Ma il caso Volkswagen permette di fare qualche riflessione in più sull’inganno, le sue forme, i suoi moventi e la sua capacità di attecchire in contesti istituzionali diversi.
Riassumiamo brevemente i fatti, per quello che è noto. Nel 2014 Peter Mock, direttore per l’Europa di un’organizzazione non profit che si occupa di ambiente e trasporti (l’ICCT) avendo notato qualche incongruenza nei test europei sui modelli diesel della Volkswagen si fa venire in mente di sottoporre a test le Volkswagen che circolano negli Stati Uniti. Il suo è un nobile obiettivo: mostrare agli europei che è possibile fissare standard più rigorosi per le emissioni di ossido di azoto dei motori diesel adottando il modello statunitense di standard più rigorosi e (così pensava) di controlli efficaci.
Mosso da questa motivazione “pubblica”, Mock si trova a scoprire – con l’aiuto di esperti universitari americani prima e l’appoggio dell’agenzia federale sull’ambiente, dopo – un inganno privato che, però, come vedremo, non è facile considerare soltanto privato. Inizialmente Volkswagen cerca di negare e di minimizzare, ma di fronte a un’evidenza che non consente tante altre spiegazioni, ammette di avere installato sulle proprie vetture un software “intelligente” in grado di riconoscere quando è in corso un test di laboratorio e di ridurre fittiziamente le emissioni. Sulla strada, nella guida reale, le vetture licenziate dal test inondavano l’atmosfera di dosi ben più copiose di ossido di azoto, fino a 35 volte in più di quelle controllate.
Diversamente da altri disastri per l’ambiente e la salute qui il caso non c’entra nulla. Siamo di fronte a un piano che sembra meticolosamente studiato (con precisione germanica si potrebbe provocatoriamente dire) e che è punteggiato da eventi che ora suonano paradossali; ad esempio quello relativo alla campagna diretta a convincere il mercato che Volkswagen possedeva la formula del “clean diesel” o anche il premio che nel 2008 venne assegnato alla Jetta come “auto verde dell’anno” in occasione del Los Angeles Auto Show. Naturalmente questo piano aveva lo scopo di permettere alla Volkswagen di risparmiare i costi connessi alla tecnologia davvero “clean” e, dunque, di accrescere i propri profitti. Tutto questo, dobbiamo presumere, nella consapevolezza che a fronte di questi profitti ci sarebbero stati costi pesantissimi anche in termini di vite umane, come suggeriscono alcuni studi sugli effetti dell’ossido di azoto. L’inganno della Volkswagen non è l’unico né il primo in questo ambito: nel 1998 l’Honda e la Ford subirono multe piuttosto salate per aver dotato i loro veicoli di strumenti in grado di aggirare i sistemi di controllo delle emissioni. La stessa Volkswagen fu accusata di comportamenti simili già negli anni Settanta e pagò una multa di 120.000 dollari, una cifra non irrilevante per quei tempi.
Questo inganno è piuttosto diverso da quelli, sotto certi aspetti assai più “gentili”, che hanno in mente Akerlof e Shiller, soprattutto sembra avere conseguenze diverse e sembra chiamare in causa istituzioni diverse. Infatti, questo inganno è diretto in primo luogo a violare una norma, dunque una regolazione. Volkswagen ha sconfitto la (presunta) razionalità dei regolatori e anche dei suoi clienti, almeno di quelli che hanno scelto le sue automobili perché davano un peso rilevante al fatto che effettivamente montassero un “clean diesel”. Ed ha avuto, fino alla comparsa di Mock, successo. Questo dovrebbe essere sufficiente a escludere che la regolazione sia per sé la soluzione. Se non si riconosce il rischio di fallimento della regolazione non si potrà disegnarla in modo efficiente.
Proviamo a spiegare, a grandi linee, il comportamento della Volkswagen, questo sì razionale. Per una volta almeno il modo migliore di farlo è di richiamarsi all’impianto dell’economia del crimine, come formulato oramai molti anni fa da Gary Becker. Gli ingredienti essenziali sono tre: il vantaggio derivante dal “crimine”, la probabilità di essere scoperti e la sanzione nella quale si incorre in caso di scoperta.
Possiamo dire che nel caso della Volkswagen i vantaggi del “crimine” erano altissimi; la probabilità di essere scoperti bassa e così anche le sanzioni. I vantaggi erano alti perché, da un lato, erano bassi i costi del software “intelligente” in rapporto alla tecnologia “clean” (anche le innovazioni seguono le convenienze) e dall’altro, grazie all’enorme mercato controllato da Volkswagen, i ricavi complessivi attesi, molto alti. La probabilità di essere scoperti era bassa, come risulta anche dal modo, sotto alcuni aspetti ridicolo, di effettuazione dei controlli. E anche le sanzioni non sembrano in grado di scoraggiare il “crimine”, piuttosto hanno aspetti di illogicità. Esse, infatti, consistono nel pagamento di multe che colpiscono gli azionisti più che coloro che si sono verosimilmente appropriati dei profitti dell’inganno e sono anche di entità tale da non eguagliare probabilmente il vantaggio ottenuto con il crimine. Dunque, il loro effetto scoraggiante è minimo. Per accrescere la loro efficacia occorre probabilmente prendere sul serio il suggerimento formulato da alcuni, e in particolare da Rena Steinzor nel suo Why not Jail? del 2014: sottoporre alla legge penale i responsabili di questi comportamenti. È significativo che dopo lo scandalo Volkswagen non pochi si siano schierati a favore di questa opzione, e tra essi c’è l’Economist.
Ma occorre anche chiedersi se le dimensioni della Volkswagen c’entrino qualcosa con la leggerezza dei controlli e la loro evidente ingenuità, non solo in USA ma anche in Europa (dove, peraltro, si discute se essi siano di competenza della Commissione o dei singoli stati nazionali). Con un po’ di malizia si potrebbe dire che le dimensioni delle imprese agiscono in modi diversi, ma sempre perversi, sulle tre determinanti del comportamento criminale: i vantaggi dell’inganno, la probabilità di essere scoperti e la sanzione in caso di scoperta. E per questo si può affermare che questa forma particolare e particolarmente pericolosa di inganno ha qualcosa a che vedere con il cosiddetto crony capitalism. Nel crony capitalism gli incentivi che muovono il privato rischiano di risucchiare anche il pubblico. Non senza qualche sconcerto occorre ricordare che nella Volkswagen la presenza pubblica è forte e, inoltre, che la governance interna è ispirata alla cogestione. Né l’una, né l’altra sono state sufficienti per prevenire l’inganno.
Tutto questo non vuol dire che occorre rassegnarsi e che la regolazione va abbandonata. Piuttosto va riconosciuto che la regolazione quando deve misurarsi con problemi “giganteschi” può fallire. Per questo invece che puntare soltanto su una regolazione forte, fortissima – nel controllo e nelle sanzioni – sarebbe bene cercare anche di attenuare il primo dei fattori da cui dipende la scelta “criminale”: l’entità dei benefici che da essa ci si attendono, i quali naturalmente dipendono dalla grandezza del mercato che si controlla e, a livello individuale, dalla capacità di appropriarsi dei profitti dell’inganno. Dunque: dalla struttura dei mercati, dalle dimensioni delle imprese e dai sistemi di governance che fissano i “poteri” all’interno di queste ultime.
Concludendo: non sarebbe saggio confondere gli interessanti e raffinati casi di inganno a cui fanno giustamente riferimento Akerlof e Shiller con queste forme di inganno-crimine, né sarebbe responsabile far leva sulla difficoltà di prevenire i primi per non impegnarsi a dare alle seconde una soluzione, che è possibile con l’aiuto del pubblico (purché sia almeno un po’ autonomo), del privato (meglio se un po’ responsabile) e del non profit (specie se popolato da tanti Peter Mock).
Pubblicato su eticaeconomia l’1 ottobre 2015.