In questi giorni su giornali e televisioni dilaga l’ennesima espressione inglese per significare cose che si potrebbero benissimo dire in italiano. Non c’è notiziario che non tiri fuori la “stepchild adoption” per intendere l’adozione del figliastro, espressione che sarebbe tanto più comprensibile e chiara. Per inciso, il termine viene usato nel caso di adozione da parte di uno dei due componenti di una coppia del figlio naturale o adottivo dell’altro. Può riferirsi sia a coppie eterosessuali che omosessuali ma è più comunamente inteso per coppie omosessuali.
Il prestito straniero è sempre il benvenuto quando copre campi semantici che l’italiano non raggiunge. In questo caso è perfino un nutrimento per la lingua che con il prestito si espande a comprendere nuovi significati. Quando invece il prestito è una rinuncia ad usare l’italiano, la nostra lingua perde le sue parole, le dimentica e lentamente si impoverisce. Lamentarsi per questi oscuramenti dell’italiano e farne il triste inventario è diventato inutile. Dal “Ministero del Welfare” al “Jobs Act” ne abbiamo visti tanti. Parole che invece di dire nascondono, invece di spiegare ingannano. La colpa è innanzitutto di chi le usa, ma anche di chi gliele lascia usare. E’ una colpa collettiva, un sintomo di debolezza della nostra società che sente inadeguata la propria lingua alla modernità e invece di inventare neologismi italiani cerca le parole dell’inglese per esprimerla. E’ un’ammissione di sconfitta, l’incapacità di concepire il nuovo.
Questo accade nei giorni in cui si diffonde la notizia dell’arrivo in Italia di Starbucks. La multinazionale americana che ha imposto nel mondo intero il suo stile di caffè ora viene a sfidarci direttamente in casa in un campo in cui siamo sempre stati i signori assoluti. Il nostro espresso è diventato un marchio di italianità ovunque. Ma a noi non è mai venuto in mente di appropriarcene culturalmente e farne un marchio di promozione nazionale. Come del resto con molti dei nostri più caratteristici prodotti. Basti pensare alla pizza, che altre multinazionali ci hanno rubato facendone imitazioni ormai diventate più popolari dell’originale. E se siamo stati capaci di farci fregare la pizza, perché non dovremmo farci ugualmente fregare il caffè? Anche qui i segni di supremazia straniera si vedono già dalla lingua. Gli americani di Starbucks hanno felicemente inventato e brevettato il loro “frappuccino”, usurpando il nostro cappuccino. Mentre noi siamo incapaci di usare la nostra lingua e ricorriamo all’inglese per dire cose che potremmo dire in italiano, i nostri rivali con la nostra lingua ci giocano e inventano perfino parole nuove. Quale maggior segno di vitalità per una cultura che essere capaci di inventare con successo concetti nella lingua degli altri? Noi non sappiamo parlare l’inglese ma ne infarciamo la nostra lingua di parole a sproposito. Gli americani invece sanno dell’italiano quanto basta per imitarci e addirittura reinventare un’italianità finta che poi rivendono alle nostre spalle. Ma nessuno ci batte a riesumare da giusta morte estinti dialetti e insegnarli a scuola. In questo suicidio trionferemo.