Roma – Lo scontro è stato duro, ma alla fine il Senato ha dato l’ok alla riforma della Costituzione. Tra algoritmi sforna emendamenti leghisti e scissioni – avvenute in Forza Italia con l’abbandono di Denis Verdini e del suo gruppo, e solo sfiorate nel Pd – la battaglia ha messo a dura prova la tenuta dello stesso governo, che ha fortemente voluto questa modifica ed è determinato a portarla inalterata fino al referendum confermativo. Per questo, il testo licenziato dai senatori non dovrebbe essere più toccato nei successivi passaggi (due a Montecitorio e uno al Senato, visto che l’iter prevede due approvazioni da ciascuna delle due Camere, senza che vi siano modifiche, prima del referendum popolare, necessario in assenza di una maggioranza dei 2/3 in Parlamento).
I 178 voti favorevoli (179, contando l’ex ministro Iosefa Idem che ha dichiarato di aver sbagliato a votare) sono arrivati non solo dalla maggioranza, che anzi ha avuto qualche defezione con il voto contrario di alcuni senatori Pd come Corradino Mineo, Felice Casson e Walter Tocci. Dai dissidenti dem e dal gruppo che fa capo all’europarlamentare Raffaele Fitto sono arrivati gran parte dei 17 voti contrari, perché le opposizioni hanno scelto in blocco di uscire dall’Aula per manifestare il loro dissenso. Il premier ha comunque superato l’ostacolo potendo contare sulla convergenza del gruppo verdiniano, che però, sottolineano dalla maggioranza, non è stato determinante per far passare la legge.
Il nuovo assetto istituzionale, se la legge rimarrà invariata e gli italiani vorranno confermarla al referendum, prevede la fine del bicameralismo perfetto. La Camera dei deputati manterrà le prerogative attuali e sarà l’unica Assemblea legislativa e la sola a votare la fiducia al governo. Le funzioni del Senato saranno invece ridotte. Avrà competenza legislativa piena solo su riforme costituzionali e leggi costituzionali. Riguardo alle leggi ordinarie, potrà chiedere alla Camera di introdurre delle modifiche, ma i deputati non avranno l’obbligo di accoglierle. Solo su alcune materie, quelle che riguardano il rapporto tra Stato e Regioni, servirà la maggioranza assoluta dell’Aula di Montecitorio per ignorare le richieste del Senato.
La nuova assemblea di Palazzo Madama avrà inoltre un nuovo assetto. Dagli attuali 315 senatori si scenderà a 95. Di questi, 21 saranno sindaci (uno per ogni regione o provincia autonoma) e 74 saranno consiglieri regionali. Altri 5 senatori, per arrivare a un totale di 100, saranno nominati dal presidente della Repubblica e rimarranno in carica 7 anni. Scomparirà quindi la figura dei senatori a vita.
Il problema della legittimazione popolare – sul quale la minoranza del Pd aveva costruito una barricata minacciando di bocciare l’intera riforma – è stato risolto prevedendo che i cittadini, al momento delle elezioni regionali, esprimano la preferenza per i consiglieri indicando anche chi preferiscono come senatore. L’elezione spetterà comunque ai Consigli regionali, che sceglieranno un sindaco nella Regione e individueranno al loro interno i restanti senatori di competenza (il numero varia a seconda del peso demografico di ciascuna Regione) secondo il principio di proporzionalità tra le forze politiche rappresentate al loro interno.
I nuovi senatori non riceveranno compensi aggiuntivi rispetto a quelli percepiti in veste di sindaco o consigliere regionale, ma godranno delle stesse immunità previste per i deputati. Dunque, niente arresti preventivi né intercettazioni a loro carico senza una preventiva autorizzazione da parte del Senato.
L’abolizione del bicameralismo, nelle intenzioni del presidente del Consiglio Matteo Renzi, ha il senso di snellire l’iter legislativo e l’azione di governo. Una finalità perseguita anche dalla norma che impone la modifica dei regolamenti parlamentari per introdurre l’obbligo di indicare una data certa per il voto sui disegni di legge presentati dall’esecutivo.
Cambieranno le modalità per l’elezione del presidente della Repubblica. A esprimersi saranno solo Camera e Senato, non più affiancati dai delegati regionali. Per i primi 3 scrutini non si cambia, servirà la maggioranza dei 2/3 dei componenti. Dal quarto al sesto scrutinio si scende ai 3/5 degli aventi diritto, mentre dal settimo in poi basteranno i 3/5 dei votanti (attualmente è prevista la maggioranza assoluta dalla quarta votazione in poi).
Riguardo alla partecipazione popolare, il numero di firme per richiedere un referendum sale dalle attuali 500 mila a 800 mila. Si abbassa però il quorum per considerare valida la consultazione: basterà che si rechi alle urne la metà degli elettori che ha votato alle precedenti elezioni politiche, mentre adesso è necessario raggiungere la metà più uno degli aventi diritto al voto. Anche presentare leggi di iniziativa popolare sarà più difficile: serviranno 150 mila firme contro le attuali 50 mila. Tuttavia, i regolamenti parlamentari dovranno indicare tempi certi per l’esame, garantendo dunque che verranno almeno discusse.
Anche la forma di federalismo viene ritoccata. Con la modifica del Titolo V, infatti, non ci saranno più materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni. Saranno accentrate le decisioni in materia di energia, infrastrutture strategiche e sistema di protezione civile. Inoltre, su proposta del governo, la Camera potrà legiferare su materie di competenza regionale “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.
Le province vengono cancellate dalla Costituzione. Si tratta di un passaggio fondamentale per una successiva abolizione di questi enti territoriali, che non avranno più lo status di organismo costituzionale. Status che non apparterrà più neppure al Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), il quale verrà quindi abrogato.