di Luigi Pandolfi
A pensarci bene, questa Europa costituisce il compimento del postmoderno in ambito politico-istituzionale ed economico. Letteralmente, di ciò che “viene dopo”. Ma “dopo” che cosa? Non c’è dubbio: “dopo” la stagione in cui lo Stato ha tentato di “contenere” e governare il capitalismo, di addomesticarne le crisi ed influenzarne le scelte, mediante la “politica economica”, la programmazione, l’intervento pubblico in economia. D’altro canto, per tutto il diciannovesimo secolo e parte degli anni venti, per dirla con James K. Galbraith, «il grande problema del capitalismo era stato la crescente gravità dei cicli economici, tra rapide espansioni e dure recessioni»[1], alle quali, salvando il capitalismo stesso, si era reagito, per l’appunto, con l’interventismo pubblico ed il welfare state. In ambito teorico, parliamo, più semplicemente, del salto di qualità dall’analisi di ciò che è (economia politica) all’elaborazione di ciò che deve essere (politica economica)[2].
La politica economica, com’è noto, si basa sulle relazioni tra variabili, “variabili-strumentali” e “variabili-obiettivo”[3]. Le prime rappresentano i mezzi attraverso i quali gli “agenti della politica economica” mirano al raggiungimento dei propri scopi, che coincidono, evidentemente, con le seconde variabili, quelle “obiettivo”. Agenti-strumenti-obiettivi: questa, quindi, la triangolazione alla base di qualsiasi modello di strategia economica. Ma chi sono gli “agenti di politica economica”? Beh, non potrebbero che essere gli Stati attraverso i loro governi, a loro volta legati al parlamento (o direttamente al corpo elettorale) da un vincolo di tipo fiduciario. Nondimeno, nella storia economica contemporanea, con la crisi del ‘29 che ha segnato una nuova svolta in tal senso, l’azione degli Stati in ambito economico non si è mai dispiegata isolatamente, bensì “in concorso” con le banche centrali, autorità monetarie nazionali, “strumentalmente” legate al potere politico. Quando i provvedimenti adottati hanno avuto come substrato l’interrelazione tra più variabili strumentali ed il conseguimento di una pluralità di obiettivi, si è parlato, sovente, più che di “politica economica”, di “programmazione economica”. Un caso recente di programmazione a medio termine è stato, ad esempio, l’American Recovery and Reinvestment Act (ARRA) adottato dall’amministrazione Obama nel 2009 per reagire alla crisi dei subprime[4]. In Italia, invece, gli ultimi tentativi, ancorché falliti, di programmazione economica risalgono agli anni ottanta[5].
Veniamo ora ad alcuni esempi di variabili strumentali e di variabili-obiettivo. Alle prime appartengono senz’altro la spesa pubblica, la base monetaria e l’offerta di moneta, la leva fiscale; rientrano nelle seconde la piena occupazione, i redditi, la perequazione sociale, lo sviluppo industriale, ma anche la stabilità dei prezzi, l’equilibrio delle bilance commerciali. Come si vede, il raggiungimento di questi obiettivi richiede almeno due attori – governi e banche centrali – e un mix di politiche fiscali e monetarie (e/o valutarie). Una regola che, ancora oggi, è valida per tutti i paesi del mondo, dalla Repubblica di Nauru in Oceania agli Stati Uniti d’America. Con la sola eccezione dell’Europa (eurozona), dove la banca centrale (BCE) è stata “denazionalizzata” e gli Stati vi si rapportano in condizione di formale subalternità. Cos’altro ha dimostrato, del resto, la tragica vicenda greca, se non il fatto che la volontà popolare conta tanto quanto niente di fronte al potere sovrabbondante, minaccioso, ricattatorio, del Leviatano di Francoforte? Un mondo rovesciato: dalle banche centrali al servizio degli Stati, agli Stati col cappello in mano dinanzi al portone delle banche centrali.
C’è una logica in questo? Certo che c’è. È la logica dell’ideologia neoliberista (vogliamo chiamarla monetarista, neoconservatrice?), secondo la quale gli Stati devono essere messi nella condizione di non nuocere all’economia, perché già da sé essa è capace di assicurare il necessario equilibrio negli scambi ed una razionale allocazione delle risorse (teoria dei mercati efficienti). In altri termini, si tratta di impedire allo Stato di “sprecare risorse”, semplicemente mettendolo nella condizione di non poter spendere. Ma come raggiungere questo obiettivo? Per esempio, spezzando nettamente il rapporto tra autorità politica ed autorità monetaria. In questo modo, si toglie agli Stati (“agenti della politica economica”) la facoltà di avvalersi di una “variabile strumentale” (ricordate?) fondamentale per il conseguimento dei propri fini (“variabile-obiettivo”), limitandone, quasi fino ad annullarle, le loro prerogative, anche di derivazione costituzionale, in materia di politica economica e di programmazione dello sviluppo. Si ricordi, a tal proposito, anche l’assunto di Friedrich August von Hayek, teorico dello “Stato minimo”: «l’inflazione è un male da combattere con ogni mezzo, i cui responsabili sono i governi con la loro abnorme creazione di moneta, finalizzata a «garantire speciali benefici a gruppi di clientes sempre più numerosi»[6].
Questa conclusione, già alla base dei “divorzi” tra governi e banche centrali nazionali a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, ha trovato un’applicazione “radicale” in Europa, con la transnazionalizzazione del potere della banca centrale, ovvero facendo della stessa un’entità totalmente indipendente, anche fisicamente, dal potere politico[7]. La stabilità dei prezzi e il divieto di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici diventano, a questo punto, un dogma, anche a fronte dei cicli avversi[8]. Ma non finisce qui. In Europa sono stati sterilizzati anche gli altri due strumenti principe a disposizione degli Stati per dare gambe alle loro strategie di breve, medio o lungo termine: la politica valutaria e quella di bilancio o fiscale. La prima è inibita dalla moneta unica, la seconda dal vincolo del pareggio di bilancio previsto dal patto di stabilità europeo (fiscal compact). Ci si è chiesti, del resto, perché, ad esempio, nel nostro paese quelli che un tempo erano i “Documenti di programmazione economica e finanziaria (DPEF)” ora si chiamano “Documenti di economia e finanza (DEF)”?[9] Non è, certamente, una questione lessicale. O non solo. Piuttosto, è il segno del tentativo di “oggettivizzazione” del dato economico contingente e dei meccanismi preposti alla sua riproduzione. È rimasta l’“economia” e la “finanza”, in quanto dati “oggettivi”, ma è scomparsa la “programmazione economica e finanziaria”, che presuppone la funzione politica del governo.
Il limite di questo assetto istituzionale europeo è venuto fuori in tutta la sua gravità in questi anni, segnati da una crisi di proporzioni epocali, sistemica, di lunga durata. Dopo il salvataggio-tampone delle banche, ci si è illusi che dalle secche della recessione e della deflazione si potesse uscire semplicemente con le “manovre” espansive della BCE, peraltro decise in totale autonomia dal bureau dell’istituto di Francoforte. Gli Stati, impossibilitati a praticare politiche fiscali espansive in funzione anti-ciclica, sono rimasti fino a marzo del 2014, quando ha preso avvio il programma di quantitative easing, semplicemente in attesa che il bazooka di Draghi sparasse il primo colpo. Il risultato è che ancora siamo qui a commentare un aumento dell’inflazione su base annua dello 0,1 per cento ed una crescita del PIL ben al di sotto delle aspettative, mentre i disoccupati sono ormai 25 milioni, di cui solo 19 nell’eurozona. La chiamano ripresa, insomma, ma è solo stagnazione, con ricadute sociali a dir poco drammatiche. Peraltro, il presidente della BCE ha già messo le mani avanti, ammettendo che nei prossimi mesi i prezzi «potrebbero tornare negativi». Ah, già, nel frattempo c’è stato il rallentamento dell’economia cinese!
Ma se uno Stato non può influire sulla politica monetaria, né può svalutare la propria moneta e fare spesa in deficit – in pratica è privato di tutti gli strumenti della politica economica –, come può far fronte ai problemi dell’economia e della società? Gli restano le tasse, i salari dei lavoratori, i tagli alla spesa sociale e la svendita del patrimonio pubblico. In altri termini, può sempre scaricare sui ceti più deboli il costo delle crisi e, più in generale, della competitività, com’è accaduto massicciamente in questi ultimi anni. Chiuso il cerchio. L’Europa, da patria del socialismo, o più modestamente del welfare state, è stata ridotta a laboratorio del postmodernismo liberista. Così, del modello sociale europeo, ovvero quel sistema che ha fatto vivere per decenni le nuove generazioni nella convinzione che la loro vita sarebbe stata migliore di quella dei propri padri, non è rimasto ormai che un sottile vestigio.
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[1] James Kenneth Galbraith-Stanislav Mensikov, Le nuove prospettive dell’economia mondiale, Rizzoli, 1989.
[2] Vittorio Valli, Politica economica, La Nuova Italia Scientifica, 1993.
[3]. Ibid.
[4] La manovra da 831 miliardi di dollari aveva come obiettivo la creazione “immediata” di nuova occupazione, il potenziamento della rete di protezione sociale per i soggetti più colpiti dalla crisi, il rilancio dell’economia attraverso investimenti diretti in infrastrutture, istruzione, sanità, energie rinnovabili. Tale operazione è stata coniugata con quella di quantitative easing (QE), che dal settembre del 2012 ha immesso nel sistema liquidità ad un ritmo di 85 miliardi di dollari al mese (ridottosi ora a 45 miliardi per effetto del tapering iniziato a maggio del 2013).
[5] Si ricordano per quegli anni il Piano Pandolfi 1979-1981, il Piano La Malfa 1981-1983, il Piano De Michelis del 1985.
[6] Friedrich August von Hayek, Denationalization of Money: An Analysis of the Theory and Practice of Concurrent Currencies, Londra, 1976.
[7] TFUE, Articolo 130: «nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo».
[8] L’autonomia della politica monetaria, Una riflessione a trent’anni dalla lettera del Ministro Andreatta al Governatore Ciampi che avviò il “divorzio” tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia, Atti della Banca d’Italia, 15 febbraio 2011.
[9]. A tal proposito si veda anche: Luigi Pandolfi, “C’era una volta la programmazione economica finanziaria”, Linkiesta, 8 maggio 2013.
Pubblicato su MicroMega il 29 settembre 2015 /// Foto: bass_roll.