di Nicola Melloni (@NicolaMelloni), visiting fellow alla Munk School of Global Affairs dell’università di Toronto
Il clamoroso risultato riportato dal Movimento Cinque Stelle (M5S) alle elezioni politiche del 2013 colse di sorpresa la politica italiana. Una formazione – che preferisce non farsi chiamare partito – appena nata, organizzatasi prevalentemente su internet e costituita in larga maggioranza da cittadini senza alcuna esperienza di politica attiva, ottenne oltre il 20 per cento dei voti – più di Forza Italia e alla pari del PD.
A causa del sistema elettorale in vigore questi voti non si sono tradotti in altrettanti seggi, ma questo non toglie che il fenomeno dei 5 Stelle abbia ovviamente suscitato interesse ed attenzione – e solo un anno dopo l’esperienza del M5S avrebbe attirato paragoni con la nascita di Podemos in Spagna.
Non vi sono dubbi che il successo di entrambi questi movimenti sia nato da situazioni simili, in particolare la crisi economica e politica che ha avuto il suo epicentro nell’Europa mediterranea. In Italia come in Spagna (e più in generale nel resto d’Europa), l’arena politica è stata per decenni dominata da partiti di centrodestra e di centrosinistra che si sfidavano in accese campagne elettorali ma condividevano valori e programmi politici simili, in particolare la centralità dell’Unione europea e del libero mercato. I governi potevano cambiare coloro ma le differenze di politica economica erano al più marginali.
Le cose sono cambiate con l’esplodere della crisi finanziaria: l’austerity ha acuito la recessione, l’euro è divenuto parte del problema e non della soluzione e il sistema politico prodotto di quella struttura economica è entrato in crisi. Partiti nuovi o precedentemente marginalizzati hanno approfittato della crisi di legittimità del sistema politico europeo.
L’aspetto che però più avvicina Podemos al M5S – oltre all’essere totalmente nuovi sulla scena politica – è la forte retorica anti-establishment: la “vecchia” politica è descritta come composta da una casta di politici con interessi personali in contrapposizione all’interesse generale. E visto che tanto i socialisti che i conservatori sono responsabili della crisi economica, i due movimenti vogliono andare oltre la differenza fittizia tra destra e sinistra. La vera contrapposizione, dicono, è tra popolo ed élite – un messaggio politico che, sotto molti aspetti, richiama quello di Occupy: noi siamo il 99 per cento contro l’1 per cento.
Le somiglianze, però, finiscono qui. Occupy ha rimesso al centro del dibattito politico la natura di classe del capitalismo, mentre Podemos propone una democratizzazione profonda della società che metterebbe in discussione gli interessi precostituiti del capitale. Il M5S, al contrario, riduce una crisi prolungata e di portata storica ad un mero problema di corruzione e di mancanza di virtù civiche, ignorando le dinamiche economiche e di classe del capitalismo italiano. Quello del M5S non è un programma politico di cambio radicale quanto piuttosto un mix di buon senso, appelli populisti e slogan un po’ di destra e un po’ di sinistra. La battaglia anti-establishment del M5S è in realtà monca perché non capisce, né analizza le circostanze profonde che hanno permesso lo sviluppo di un tale sistema di corruttela.
È allora il caso di iniziare proprio da queste circostanze per capire le ragioni del successo del M5S e le differenze con altri movimenti europei più radicali e progressisti. Quello che è importante capire è che la crisi italiana è diversa da quella globale ed europea, in quanto parte da ben prima dello scoppio della bolla finanziaria. Si tratta di una crisi iniziata quasi 25 anni fa con la fine dell’Unione Sovietica ed il successivo collasso della cosiddetta Prima Repubblica, una fase politica iniziata subito dopo la seconda guerra mondiale in cui l’Italia fu governata ininterrottamente dalla Democrazia Cristiana. A causa del ruolo strategico dell’Italia e dell’inusuale forza del Partito Comunista, la situazione italiana si dimostrò essere peculiare, dando vita ad una democrazia bloccata.
La DC contava su un consenso di massa, il supporto americano e un estesissimo sistema clientelare molto spesso confinante con la criminalità organizzata e la corruzione di massa dei pubblici ufficiali. Quello italiano era un sistema capitalista clientelare e corrotto, fronteggiato da una sinistra forte e capace di influenzare le scelte politiche ed ottenere importanti concessioni anche dall’opposizione.
Si trattava di un regime politico basato essenzialmente su due pilastri: l’appoggio internazionale e le concessioni sociali ed economiche per mantenere alto il consenso interno. Una volta che uno dei due supporti chiave venne meno, l’intero sistema politico collassò. La fine dell’URSS prima e del PCI poi fecero venire meno il ruolo centrale della DC e aprì la strada ad una serie di inchieste giudiziarie – la stagione di Mani Pulite – che portarono alla dissoluzione dei partiti tradizionali.
Non si era però certo davanti ad un cambiamento dal basso, tantomeno ad una rivoluzione. Il vecchio sistema politico era semplicemente collassato sulle sue stesse contraddizioni, lasciando un vuoto che nessuna organizzazione politica fu capace di colmare. Quello che successe, invece, è che per un paio d’anni in Italia si ebbe un crescente attivismo della società civile che reclamava una classe politica nuova ed onesta, ma senza nessuna vera domanda di avanzamento sociale ed economico. La rabbia si concentrò contro i corrotti, reclamando un cambiamento di classe politica, ma gli interessi diffusi che avevano generato quel sistema furono largamente ignorati.
Le responsabilità della sinistra furono molteplici. Confusi dal post-89, i partiti eredi della tradizione comunista si dimostrarono completamente incapaci di capire la crisi di regime cui si trovavano davanti e di sfruttare questa opportunità storica. La rovinosa evoluzione iniziata con la fine del PCI portò la sinistra ad abbandonare ogni aspirazione di reale cambiamento in senso progressista, accontentandosi di rappresentare il volto pro-europeo e modernizzatore del capitalismo italiano.
Il modesto obiettivo che la sinistra riformata si pose fu quello di creare un “paese (capitalista) normale”, come Francia e Regno Unito. Fallì però anche in questo: quello che invece emerse fu una versione un poco aggiornata del vecchio sistema. Infatti, la Seconda Repubblica venne inaugurata dalla vittoria di Berlusconi, capace di presentarsi come il “nuovo”, nonostante rappresentasse proprio quegli interessi che avevano dominato la scena per decenni.
Le cose cambiarono ben poco nel susseguirsi di governi di quegli anni: le forze conservatrici tradizionali furono in grado di resistere ad ogni pur timido tentativo di cambiamento, sfruttando a proprio favore il lungo declino economico del paese. Con l’economia strangolata dall’elevato debito pubblico, da clientele locali sempre in vendita al miglior offerente, da un sistema produttivo obsoleto ed incapace di tenere il passo della globalizzazione, e con l’azione politica bloccata dalle regole europee che impedivano tanto le svalutazioni competitive quanto ogni tipo di crescita della spesa pubblica, il paese si ridusse pian piano in rovina sotto un regime di austerity ante-litteram.
In tali condizioni, l’Italia, nonostante fosse tra i paesi fondatori dell’euro, rimase ai margini della globalizzazione neoliberista. Gli investimenti esteri ignorarono il paese; la privatizzazione selvaggia degli anni Novanta favorì i soliti noti, privilegiando i contatti politici invece delle capacità imprenditoriali; il capitalismo famigliare continuò a preferire gli accordi a porte chiuse alla competizione di mercato. La tanto sospirata modernizzazione non arrivò mai.
Un sistema economico bloccato ed in crisi ne generò uno politico immobile e stagnante. Le campagne elettorali furono dominate da Berlusconi, il personaggio più controverso e carismatico dai tempi di Mussolini. Si formarono così due coalizioni molto eterogenee, col minimo comune denominatore di supportare o contrastare il Cavaliere. Il contenuto politico di queste campagne era, alla fine dei conti, largamente irrilevante, e la chiave del successo si trovava soprattutto in quel sistema clientelare decisivo che era indispensabile per ottenere il supporto di baroni locali in controllo del voto di scambio. La testa del drago, la DC, era stata decapitata, ma il corpo era ancora vivo e forte: il vecchio sistema di corruzione, lungi dall’essere estinto, ricomparve e ben presto i giornali italiani ricominciarono a riempirsi delle vecchie notizie di ruberie e scandali politici.
Ancora una volta, però, questo regime decadente non fu travolto da qualche novità politica interna, ma crollò per cause esogene, la crisi finanziaria internazionale. Una crisi che inizialmente colpì l’Italia in maniera leggera, grazie alla minore esposizione delle banche italiane nel mercato dei derivati – una differenza sostanziale e decisiva rispetto alla situazione della Gran Bretagna e della Spagna.
È in questa situazione di perenne declino economico, politico e morale che è iniziata l’avventura del M5S. Beppe Grillo, il fondatore, era un personaggio molto conosciuto ben prima della nascita del movimento. Grillo era stato un comico di successo, i cui spettacoli e monologhi, pur esiliati dalla Rai, trovavano spazio nelle TV, e fondatore di un blog di grandissimo successo, tra i più visitati in Italia e all’estero.
La svolta più propriamente politica è avvenuta quando, aiutato da un’agenzia di marketing, Grillo ha cominciato ad organizzare i primi incontri di massa, i V-Day, dove si scagliava contro la corruzione del sistema politico. Con una retorica populista che sarebbe stata ripresa successivamente da Podemos, Grillo lanciò la sua parola d’ordine: non ci sono più destra e sinistra, ma solo un sistema politico tossico che è il vero cancro del paese.
Queste affermazioni avevano un ovvio appeal per le masse di delusi ed arrabbiati, indignati dai sempre più frequenti casi di corruzione, demoralizzati da un paese in perpetua crisi, ed ormai convinti che tanto la destra quanto la sinistra fossero incapaci di produrre qualsiasi cambiamento significativo. Anche la sinistra radicale, possibile avversario del M5S, aveva perso la fiducia degli elettori, dopo essere entrata nel governo Prodi del 2006 senza lasciare alcuna traccia della sua presenza. Per battere Berlusconi, Prodi, un politico tanto onesto quanto moderato, aveva messo in piedi un baraccone che andava dai settori più moderati e compromessi nati dalla vecchia DC a Rifondazione Comunista, con risultati fallimentari.
Il M5S, nuovo sulla scena politica, senza scheletri nell’armadio, e genuinamente alternativo tanto alla destra quanto alla sinistra, raccolse la bandiera di Mani Pulite e la lotta per un paese più civile ed onesto, iniziata nel 1992 e interrotta dal successo di Berlusconi solo due anni più tardi. L’elettorato fu subito ricettivo alle parole d’ordine del movimento lanciato da Grillo: da una parte il disgusto provocato dalla vecchia politica, dall’altra la situazione economica che si deteriorava rapidamente tolsero ogni legittimazione rimasta all’establishment.
Il motivo maggiore del successo del M5S – che è anche il suo limite principale – è la capacità di incolpare la politica tradizionale per il declino dell’Italia. Mentre in Grecia ed in Spagna la crisi finanziaria ha esposto non solo la corruzione del sistema politico ma soprattutto le colpe e le contraddizioni del neo liberismo, in Italia la critica del capitalismo è rimasto un tema marginale. Il messaggio, e la soluzione proposta, erano facilmente comprensibili, ed efficaci: rimpiazziamo la vecchia casta di politici corrotti con dei cittadini onesti. Per Grillo ed i suoi, il sistema politico basato su clientele e mazzette non era il frutto di un certo tipo di capitalismo, ma il risultato della corruzione dei suoi protagonisti.
In realtà, il problema è ben più profondo. L’Italia è stata per lungo tempo un’economia patrimoniale dove il confine tra politica ed economia era, per usare un eufemismo, molto sbiadito; dove la prossimità personale al potere era la maniera più sicura per avere successo; e dove lo Stato è spesso partner di un settore privato dominato da grandi imprese mai in competizione tra loro e con proprietà incrociate, ed un capitalismo familiare fatto di piccole e medie imprese messo sotto pressione dalla globalizzazione.
Si può certo incolpare i politici, ma questi politici sono solo il volto – indubbiamente rivoltante – di una società decrepita. Specialmente nel Sud, i baroni locali controllano voti, e li mettono in vendita al miglior offerente. I partiti politici sono privi di visione e di programmi ma sono anche il prodotto di un mondo in cui le classi e gli interessi tradizionali si sono decomposti. Si tratta di un terreno molto fertile per il M5S e continuerà ad esserlo fino a che la sinistra non sarà in grado di offrire una vera alternativa, capace di rispondere alle cause profonde del disagio economico e sociale.
C’è, forse, qualche speranza. L’Italia ha avuto forti movimenti sociali: il più famoso probabilmente è stato quello contro la privatizzazione dell’acqua che ha portato alla clamorosa vittoria nel referendum del 2011. Molti altri movimenti hanno combattuto battaglie locali e specifiche, dai “No TAV” al movimento per la casa, così importane in questo momento di recessione. Ultimamente la FIOM ha mostrato forza e visibilità, con campagne e lotte dentro e fuori le fabbriche. Né va dimenticato che l’Italia è stato il paese dove il movimento no-global raggiunse la sua massima estensione e partecipazione, con manifestazioni oceaniche e un network fatto di tantissime associazioni e movimenti.
Come è chiaro, però, queste lotte non hanno ottenuto molto dal punto di vista politico. Una economia in perenne crisi – e non in caduta verticale come nel caso della Spagna ed altri – non ha portato a quell’esplosione sociale che è stato il terreno di coltura di Occupy e degli indignados. Anni di lotte e sconfitte hanno lasciato rovine e ucciso speranze.
Bisogna essere chiari: il M5S non è totalmente estraneo a queste lotte, ma non dà certo loro alcun tipo di rappresentazione politica e istituzionale coerente. Invece di politicizzare i movimenti, come molti dentro Podemos provano a fare, il M5S frena e marginalizza il discorso anti-capitalista, riducendo le lotte ad un problema di moralità politica.
Il M5S rappresenta una opposizione quasi credibile all’establishment, ma che manca di una vera spinta e programma di alternativa. Allo stesso tempo, visto la sua forza numerica e capacità politica, lo stesso M5S blocca altre forme di sviluppo politico a sinistra. Il M5S è centrale nell’opposizione al presente governo, spesso capace di dettare se non l’agenda, quantomeno un nuovo discorso politico, che è però pieno di riferimenti reazionari. Data la dilagante corruzione, si suggerisce che i partiti politici non prendano più soldi pubblici, ma solo donazioni di privati. La drammatica crisi della disoccupazione è spesso affrontata proponendo controlli sull’immigrazione. Non è un caso se in Europa il movimento di Grillo ha deciso di allearsi con lo UKIP di Nigel Farage.
Né si intravedono possibilità di cambiamento. Il movimento è diretto e organizzato da Grillo in maniera quasi dittatoriale, espellendo a piacimento chiunque provi a contrastarne la linea, e lo stesso Grillo è il titolare del logo del partito, facendone dunque il padrone vero e proprio del movimento. Al momento, un partito nato per promuovere la democrazia dal basso è effettivamente diventato un movimento oligarchico.
Soprattutto però, come si diceva, il vero problema è come il M5S abbia avuto successo nel ridurre tutta la crisi italiana ad un problema di morale politica. La diagnosi è così clamorosamente sbagliata che è stata assecondata da una larga parte dell’establishment. Non a caso il termine casta è stato reso popolare dai giornalisti del Corriere Rizzo e Stella e il successo del loro libro ha anticipato e accompagnato l’ascesa del M5S.
Né sorprende che lo stesso Matteo Renzi abbia usato lo stesso tema – tradotto in termini di rottamazione – per lanciare la sua campagna di conquista del Partito Democratico. Si trattava sempre dello stesso messaggio: sbarazziamoci della vecchia classe dirigente che ha governato il paese per oltre due decenni, e largo ai giovani. Per Renzi il problema non è politico, ma generazionale. Come Grillo, però, il suo messaggio è che si possa cambiare il paese semplicemente rimpiazzando i vecchi politici con altri nuovi e sperabilmente più onesti.
Non è certo una proposta rivoluzionaria, sicuramente non in questa forma. Invece di usare la rabbia dei cittadini per radicalizzare la lotta contro un sistema oppressivo e sempre più violento, il M5S reindirizza queste energie verso una critica superficiale della facciata politica. Gli aspetti sociali di questa crisi – la riduzione degli spazi democratici, le riforme economiche usate per disciplinare il lavoro, le conseguenti tensioni sociali ed il riemergere del razzismo – sono completamente ignorati.
Questo non sembra essere un problema per i 5 stelle. La loro battaglia si incanala perfettamente nella tradizione gattopardesca tipica dell’Italia: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
Pubblicato in lingua inglese su Jacobin il 23 settembre 2015 /// Foto: Sara Fasullo.