di Steven Forti
Quelle di domenica scorsa in Catalogna non sono state delle normali elezioni regionali. In ballo c’era la questione dell’indipendenza di una delle più popolate e della più ricca regione spagnola (7,5 milioni di abitanti e 18 per cento del PIL del paese). I partiti a favore della secessione hanno puntato tutto sul trasformare queste elezioni in un plebiscito a favore dell’indipendenza. Ed in buona parte ci sono riusciti. Lo dimostrano l’alta partecipazione (77 per cento), la più alta della storia della Catalogna postfranchista, ben dieci punti percentuali maggiore rispetto al 2012, e la presenza di oltre 180 corrispondenti di giornali e televisioni straniere. Un fatto assolutamente inedito per delle elezioni regionali. Ma lo dimostra anche il pessimo risultato di Podemos, che si presentava all’interno della coalizione Catalunya Sí Que es Pot (‘Catalogna Sí che si può’): la strategia del partito di Pablo Iglesias era infatti tutta giocata sul non schierarsi a favore o contro l’indipendenza e sul portare il dibattito elettorale dalla questione nazionale a quella sociale. Una strategia che non ha dato i risultati sperati.
Vittoria a metà per gli indipendentisti
I risultati si prestano a una doppia lettura. I partiti indipendentisti hanno infatti ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi (72 su 135), ma non quella dei voti: si sono fermati al 48 per cento, non superando la barriera del 50 per cento che legittimerebbe una dichiarazione d’indipendenza. Nel nuovo Parlamento regionale, Junts pel Sí (‘Assieme per il sì’) – la coalizione che unisce i conservatori neoliberisti di Convergència Democràtica de Catalunya (CDC), il centro-sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) e le due associazioni indipendentiste che hanno organizzato le grandi manifestazioni delle Diadas degli ultimi tre anni, l’Assemblea Nacional Catalana (ANC) e Omnium Cultural (OC) – potrà contare su 62 deputati (pari al 39,7 per cento dei voti). Un risultato importante, ma che lascia l’amaro in bocca a Mas: nel 2012, infatti, ERC e Convergència e Unió (CiU), la federazione di cui faceva parte CDC, avevano ottenuto 71 deputati e il 43,4 per cento dei voti. Non aumentano insomma i propri consensi (in numeri assoluti, data la maggiore affluenza elettorale, raccolgono gli stessi 1.620.000 voti), pur avendo messo in moto una macchina propagandistica senza precedenti e pur contando con l’appoggio di importanti figure mediatiche come lo storico cantautore antifranchista Lluís Llach o l’allenatore del Bayern Monaco Pep Guardiola. Si pensi poi che nelle elezioni del 2010 la sola CiU, che ha governato la Catalogna per 28 degli ultimi 35 anni, aveva ben 62 deputati.
Per formare governo sarà dunque fondamentale l’appoggio interno o esterno della Candidatura d’Unitat Popular (CUP), partito indipendentista di sinistra anticapitalista, che con i suoi 10 deputati (8,25 per cento dei voti) si presenta come l’ago della bilancia. La CUP, che ha quasi triplicato i suoi voti (da 126 a 336 mila), ha dichiarato che non appoggerà un nuovo governo guidato da Mas e che, non avendo raggiunto la maggioranza dei voti, non è possibile procedere con una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Per il partito guidato dal giornalista Antonio Baños «il plebiscito non è stato vinto», però il processo soberanista non può nemmeno essere bloccato. Che cosa questo significhi è però ancora poco chiaro, anche perché la CUP ha posizioni ben diverse da Junts pel Sí: mentre la coalizione di Artur Mas è europeista, la CUP è favorevole all’uscita dalla UE e dall’euro. Il nuovo parlamento regionale si costituirà a fine ottobre: fino ad allora ci sarà tempo per le trattative e per trovare un compromesso, sempre che ci siano i margini, visto che non è sufficiente l’astensione della CUP per l’elezione del nuovo presidente della Generalitat catalana.
Ciudadanos, la rivelazione di queste elezioni
Nel fronte unionista – termine importato recentemente dal linguaggio politico britannico –, ossia tra le formazioni contrarie alla secessione della Catalogna dalla Spagna, chi sorride è Ciudadanos, il partito di centrodestra guidato dal giovane e telegenico Albert Rivera, che passa da 9 a 25 seggi, raccogliendo il 18 per cento dei voti (in termini assoluti passa da 275 mila a 735 mila voti). Nato proprio in Catalogna nel 2005, Ciudadanos ha fatto il salto alla politica spagnola lo scorso anno, crescendo rapidamente nei sondaggi con un discorso di rinnovamento delle istituzioni e di lotta alla corruzione, che copre una proposta sociale ed economica che il giornalista Antón Losada ha definito in modo azzeccato “paleoliberismo”. Nelle elezioni amministrative dello scorso 24 maggio, Ciudadanos ha ottenuto buoni risultati, confermandosi come quarto partito subito alle spalle di Podemos: dove i suoi voti pesavano, come nelle regioni di Madrid, Murcia e La Rioja, ha appoggiato i governi conservatori del PP. Il risultato di domenica nelle regionali catalane trasforma Ciudadanos nel primo partito dell’opposizione, ben davanti alle federazioni catalane del partito socialista e di quello popolare. Fortemente anti-indipendentista, la formazione di Rivera è favorevole all’apertura di un dialogo tra Madrid e Barcellona, ma senza entrare nel merito di una possibile riforma della Costituzione spagnola del 1978.
Il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC) passa da 20 a 16 seggi (12,8 per cento dei voti), ma salva il salvabile (mantiene gli stessi 520 mila votanti del 2012) con una buona campagna elettorale del candidato Miquel Iceta, appoggiato dal leader socialista spagnolo Pedro Sánchez, presente costantemente durante la campagna elettorale catalana. I socialisti sono stati gli unici che hanno proposto un progetto di riforma in senso federale della Costituzione spagnola per risolvere la questione catalana.
I grandi sconfitti di queste elezioni sono due. Il Partito Popolare viene punito per l’immobilità e la miopia politica dimostrata, oltre che per la scelta di un candidato radicale e xenofobo come l’ex sindaco di Badalona Xavier García Albiol, e viene ridotto alla marginalità, passando da 19 a 11 deputati (8,55 per cento, perdono oltre 120 mila voti). I democristiani di Unió Democràtica de Catalunya (UDC), che hanno rotto la federazione esistente dal 1978 con CDC per la loro contrarietà all’indipendenza, non sono invece nemmeno riusciti ad entrare in Parlamento, fermandosi al 2,5 per cento dei voti.
La sconfitta di Podemos
L’altro partito che esce con le ossa rotta da questo appuntamento elettorale è Podemos. Il partito di Pablo Iglesias si presentava all’interno della coalizione di Catalunya Sí Que es Pot (‘Catalogna Sí che si può’), insieme agli ecosocialisti di Iniciativa per Catalunya Verds (ICV), alla federazione catalana di Izquierda Unida (Esquerra Unida i Alternativa, EUiA) e ad Equo. I sondaggi li davano come secondo o terzo partito, alla fine sono arrivati quarti con il 9 per cento dei consensi e solo 11 seggi, ben distanti dai socialisti. Un risultato negativo, poi, se comparato con quello ottenuto da ICV-EUiA che nel 2012, correndo da sola, aveva ottenuto 13 seggi (in numeri assoluti praticamente conservano gli elettori di tre anni fa, 360 mila). Il che significa che l’effetto Podemos non si è fatto sentire tra l’Ebro e i Pirenei.
Le cause sono molte: innanzitutto, non essere riusciti a spostare sul sociale un dibattito che si giocava tutto sulla questione nazionale. Catalunya Sí Que es Pot ha puntato tutto sulla crisi economica (che nei sondaggi, insieme alla disoccupazione, attualmente al 19,7 per cento in Catalogna, era considerata come la maggiore preoccupazione per i catalani), criticando duramente le politiche di austerità applicate dai governi di Artur Mas tra il 2010 e il 2015. La coalizione non si è schierata a favore o contro l’indipendenza, ma ha tentato di sviluppare un discorso favorevole alla celebrazione di un referendum vincolante in cui i catalani possano effettivamente decidere se rimanere o meno nello stato spagnolo. La soluzione probabilmente più corretta, tenendo conto che i catalani favorevoli alla celebrazione di un referendum sono l’80 per cento, mentre quelli favorevoli all’indipendenza, secondo un sondaggio di inizio luglio del Centre d’Estudis d’Opinió (CEO) della Generalitat di Catalogna, sono il 42,9 per cento e quelli favorevoli alla creazione di uno Stato indipendente sono il 37,6 per cento (i favorevoli al mantenimento dello status quo o a una riforma federale sono invece il 29,3 e il 24 per cento).
Ma a questo errore strategico, se ne sommano altri: la scelta del nome della coalizione non è forse stata molto felice e nemmeno la scelta del capolista, lo storico attivista Lluís Rabell, che non ha dimostrato di possedere l’appeal di una Ada Colau. La sperata onda lunga di Barcelona en Comú, la formazione che ha vinto le comunali a Barcellona, non si è fatta sentire. E anche la stessa presenza dei dirigenti di Podemos – Pablo Iglesias e Íñigo Errejón hanno partecipato quotidianamente nei meeting organizzati in tutto il territorio catalano nelle ultime due settimane – non ha portato voti. Difficile capire però se ne ha tolti o se una ICV-EUiA da sola sarebbe finita appena sopra lo sbarramento del 3 per cento. Nel day after Iglesias ha ammesso, senza mezzi termini, la sconfitta, criticando l’immobilismo del governo di Rajoy e l’unilateralismo delle forze indipendentiste e portando il discorso sulle prossime elezioni generali spagnole, che dovrebbero celebrarsi il 20 dicembre: «Se vinciamo le elezioni – ha dichiarato Iglesias – chiederemo che si celebri un referendum vincolante e faremo campagna a favore del “no”. Vogliamo creare un progetto di Spagna in cui ci sia anche la Catalogna, perché la Spagna è uno stato plurinazionale». Il segretario di Podemos ha aggiunto che «in Catalogna c’è una maggioranza progressista plurale – facendo riferimento alla CUP, ERC e i socialisti – e con queste forze si potrebbe trovare un’intesa», lanciando un messaggio tra le righe alla CUP in vista del ruolo chiave della formazione guidata da Antonio Baños per la creazione di una maggioranza di governo.
Una posizione difesa anche da Errejón. Più critico invece Juan Carlos Monedero, uscito dalla dirigenza del partito alla fine di aprile per divergenze di tattica e strategia in vista delle amministrative del 24 maggio. Monedero ha ribadito la sua contrarietà alla “zuppa di sigle” e la necessità di ascoltare di più le basi. Sul fronte degli alleati di Podemos, mentre Joan Coscubiela, dirigente di ICV, non ha messo in discussione l’alleanza in Catalogna con il partito di Iglesias per le generali, Alberto Garzón, candidato di Izquierda Unida (IU), ha ribadito la necessità di giungere presto a un accordo tra le formazioni di sinistra, come sostiene la piattaforma Ahora en Común, che raggruppa alcuni settori critici di Podemos e una buona parte di IU. Dentro IU però non c’è unanimità: Izquierda Abierta – la corrente guidata da Gaspar Llamazares, ex segretario di IU e uomo forte nelle Asturie, dove a maggio IU ha ottenuto buoni risultati – è ritornata all’attacco, mettendo in discussione l’utilità di un accordo con Podemos. Anche nella regione di Valencia e in Galizia non sono ancora sicuri degli accordi tra il partito di Iglesias e le formazioni della sinistra locale (Compromís e le Maree), reduci dal successo delle comunali e delle regionali di maggio.
La partita è ancora tutta aperta. Per Podemos la strada è in salita. Il sondaggio di Metroscopia di metà settembre dava il partito di Iglesias al 18,6 per cento, appena sopra Ciudadanos (16,1 per cento), e lontano dal PSOE (24,6 per cento) e dal PP (23,4 per cento). Izquierda Unida è data al 5,1 per cento. Influirà molto la questione catalana e la posizione che assumerà il governo di Rajoy, che si gioca moltissimo nei prossimi tre mesi. Il PP pare essere ancora convinto che si possa governare la Spagna contro la Catalogna, puntando tutto sui voti che una posizione intransigente verso gli indipendentisti catalani gli porterebbe nel resto del paese. Ieri il presidente del governo spagnolo, attaccato duramente da José María Aznar, ha dichiarato però che è disposto al dialogo, ma sempre nel rispetto della legalità e della costituzione. Non ha fatto menzione né alla disponibilità di convocare un referendum vincolante in Catalogna né a una possibile riforma della Costituzione spagnola. È davvero poco per la situazione in cui ci si trova. O a Madrid si decide di sedersi e negoziare seriamente o la tensione non può che aumentare. E per Podemos uno scenario come questo, tutto incentrato sulla questione nazionale, sarebbe, molto probabilmente, il peggiore possibile.
Pubblicato su MicroMega il 29 settembre 2015 /// Foto: Jordi Boixareu.