Ogni anno in corrispondenza della giornata europea delle lingue e della settimana della lingua italiana ci tocca sorbirci i soliti trionfalismi sulla diffusione dell’italiano nel mondo e ci sbrodoliamo a dire quanto è amata la nostra lingua, quanto gli stranieri bramino impararla, la chiamiamo lingua della simpatia e poi lingua ponte, lingua della musica e tante altre fandonie che ci inventiamo per compiacere noi stessi mentre le cose stanno in tutt’altro modo. Malgrado alcuni esempi di eccellenza, alcune università per stranieri che si sono fatte una solida reputazione, l’Italia non ha una strategia per la diffusione della sua lingua nel mondo, sperpera soldi da un lato e perde opportunità dall’altro, chiudendo istituti di cultura e soprattutto rinunciando ad aprire scuole e università.
Insegnare l’italiano all’estero significa crearsi un capitale umano su cui poter contare per poi instaurare legami economici, attirare cervelli nelle nostre università o addirittura esportarle, assieme al nostro sapere, alla nostra tecnologia, al nostro modo di vivere. A saperla usare, la lingua è uno strumento di influenza. Molte delle crisi cui assistiamo oggi avrebbero potuto essere pilotate o mitigate se nei paesi coinvolti avessimo potuto contare su parti della società italofone e italofile. Portare agli altri la nostra lingua è anche portare loro la nostra mentalità e assieme ad essa quella dell’Europa, dello stato di diritto, della democrazia. Ma al di là di questi nobili ideali, la lingua serve anche all’interesse biecamente nazionale dell’ingerenza, serve a vendere, a ottenere contratti, a condizionare scelte politiche. La lingua è un mercato culturale, come un museo o un sito archeologico. Creare italofoni significa anche poter vendere loro la nostra cultura, i nostri libri, la nostra musica, il nostro turismo.
L’italiano era una lingua dell’America latina. Oggi molti laggiù si dicono italiani ma pochi la parlano. I tentativi di alcuni quotidiani nazionali di lanciare edizioni in italiano sono falliti. Perché nessuno legge più la tanto amata lingua di Dante. Eppure fino al 1922 si poteva parlare anche italiano nel parlamento argentino. Nei Balcani l’italiano era tradizionalmente parlato e in minor misura lo è ancora. Ma la politica dell’Italia in questa regione è tutta orientata verso la protezione delle nostre minoranze linguistiche. Un concetto vecchio, da riserva indiana. C’è più interesse a rendere la nostra lingua attraente per altri che a limitarsi a tutelare i pochi locutori rimasti. Siamo un grande paese ma vediamo in piccolo. Continuiamo a rinunciare a essere la superpotenza culturale che potremmo essere e sembra quasi che rimpiangiamo l’Italietta che fu.
Oggi la diffusione dell’italiano all’estero è affidata agli Istituti di cultura del Ministero degli esteri, che ha ben altre problematiche da affrontare e vede questa sua missione come un’appendice per la quale non ha risorse. Anche la Società Dante Alighieri generosamente benché inegualmente contribuisce allo sforzo, ma sempre senza avere le necessarie risorse. Qui invece servirebbe univocità d’intenti, un solido bilancio e soprattutto una visione strategica. Ma allora perché non affidare l’insegnamento dell’italiano all’estero al Ministero per i Beni culturali? La nostra lingua è il nostro primo bene culturale, quello che sottende tutti gli altri, lo strumento stesso della nostra cultura. Anche qui, ben venga il settore privato. Tanto più che con l’insegnamento dell’italiano si potrebbero perfino fare soldi. Oltre a dare finanziamenti agli istituti di cultura o alle università, investitori privati potrebbero aprire scuole italiane riconosciute all’estero e soddisfare finalmente in modo proficuo e coerente l’interesse che la nostra lingua e la nostra cultura suscitano nel mondo.