di Anatole Kaletsky
La decisione della Federal Reserve degli Stati Uniti di rimandare l’aumento dei tassi di interesse non dovrebbe essere una sorpresa per chiunque abbia prestato attenzione ai commenti del presidente della Fed Janet Yellen. La decisione della banca centrale americana ha semplicemente confermato che non è indifferente ad uno stress finanziario internazionale, e che il suo approccio di gestione del rischio resta fortemente a favore di «tassi bassi più a lungo». E allora perché i mercati e i media si comportano come se la decisione della Fed (o, più precisamente, l’inazione) fosse inaspettata?
Ciò che realmente ha scioccato i mercati non è stata la decisione della Fed di mantenere i tassi di interesse a zero per qualche mese in più, ma l’affermazione che l’accompagnava. La banca centrale statunitense ha rivelato che non era minimamente preoccupata dei rischi di un’inflazione più elevata e che non vedeva l’ora di spingere la disoccupazione al di sotto di quello che molti economisti considerano il suo tasso “naturale”, pari all’incirca al 5 per cento.
È questo rapporto – tra inflazione e disoccupazione – che è al centro di tutte le polemiche sulla politica monetaria e le banche centrali. E quasi tutti i modelli economici moderni, compresi quelli utilizzati dalla Fed, si basano sulla teoria monetarista dei tassi di interesse introdotta da Milton Friedman nel suo discorso presidenziale del 1967 dinanzi alla American Economic Association.
La teoria di Friedman sosteneva che l’inflazione accelera automaticamente senza limiti una volta che la disoccupazione scende al di sotto di un livello di sicurezza minimo, descritto come il tasso di disoccupazione “naturale”. Nel lavoro originale di Friedman, il tasso di disoccupazione naturale era una congettura puramente teorica, fondata su un presupposto descritto come “aspettative razionali”, anche se andava contro qualsiasi normale definizione del comportamento razionale.
La pubblicazione della teoria in un momento di allarme mondiale sull’inflazione a doppia cifra ha offerto ai banchieri centrali esattamente il pretesto di cui avevano bisogno per assumere azioni disperatamente impopolari. Aumentando notevolmente i tassi di interesse per combattere l’inflazione, i policymaker hanno distrutto il potere del lavoro organizzato, evitando al contempo la responsabilità della disoccupazione di massa che l’austerità monetaria era destinata a produrre.
Pochi anni dopo, il tasso “naturale” di Friedman è stato sostituito da un meno importante e più erudito “tasso di disoccupazione di inflazione stabile” (NAIRU). Ma l’idea di base è sempre la stessa. Se la politica monetaria è utilizzata per cercare di spingere la disoccupazione sotto un certo livello predeterminato, l’inflazione accelererà senza limiti e distruggerà i posti di lavoro. Una politica monetaria che mira alla disoccupazione sub-NAIRU deve essere evitata a tutti i costi.
Una versione più estrema della teoria afferma che non vi è alcun compromesso duraturo tra inflazione e disoccupazione. Tutti gli sforzi per stimolare la creazione di posti di lavoro o la crescita economica con il denaro facile si limiteranno a dare impulso alla crescita dei prezzi, senza alcuna compensazione sulla disoccupazione. La politica monetaria deve quindi concentrarsi esclusivamente sugli obiettivi inflazionistici, e le banche centrali dovrebbero essere esonerate da ogni responsabilità sulla disoccupazione.
La teoria monetarista, che limitava le responsabilità delle banche centrali al rispetto degli obiettivi inflazionistici, ricevette ben poco sostegno empirico quando Friedman lo propose. Da allora, è stata smentita sia dall’esperienza politica che dalla statistica. La politica monetaria, lungi dall’essere dissipata in un aumento dei prezzi, come prevedeva la teoria, si è rivelata avere un impatto molto maggiore sulla disoccupazione che sull’inflazione, soprattutto negli ultimi vent’anni.
Nonostante la confutazione empirica, l’attrattiva ideologica del monetarismo, sostenuta dalla presunta autorità delle aspettative “razionali”, si è rivelata schiacciante. Di conseguenza, l’approccio puramente inflazionistico nei confronti della politica monetaria ha guadagnato il dominio totale, sia tra le banche centrali che negli ambienti accademici.
Questo ci porta indietro ai recenti eventi finanziari. I modelli di inflazione utilizzati dalla Fed (e da altre banche centrali e istituzioni ufficiali, come il Fondo monetario internazionale), assumono tutti l’esistenza di un qualche limite predeterminato alla disoccupazione non inflazionistica. L’ultimo modello della Fed fissa il NAIRU al 4,9-5,2 per cento.
Ed è per questo che così tanti economisti e operatori di mercato sono rimasti scioccati dalla apparente compiacenza della Yellen. Con una disoccupazione statunitense che in questo momento è al 5,1 per cento, la teoria monetaria standard impone che i tassi di interesse devono essere alzati con urgenza. In caso contrario, o si verificherà una fiammata inflazionistica disastrosa o il corpus della teoria economica che ha dominato un’intera generazione di pensiero politico e accademico (a partire dal lavoro di Friedman sulle aspettative “razionali” e la disoccupazione “naturale”) si rivelerà completamente infondato.
Che cosa dovremmo concludere, dunque, dalla decisione della Fed di non alzare i tassi di interesse? Una possibile conclusione è banale. Dal momento che il NAIRU è un costrutto puramente teorico, gli economisti della Fed possono semplicemente cambiare le loro stime di questo numero magico. In effetti, la Fed ha già tagliato la sua stima sul Nairu tre volte negli ultimi due anni.
Ma potrebbe esserci una ragione più profonda per la pazienza della Fed. A giudicare dai recenti discorsi della Yellen, potrebbe anche essere che la Fed abbia smesso di credere nella teoria del tasso di disoccupazione “naturale”. Le ipotesi di Friedman sull’accelerazione continua dell’inflazione e sulle aspettative irrazionalmente “razionali”, che riducono la politica monetaria al perseguimento di un certo target inflazionistico, restano incorporate nei modelli economici ufficiali. Ma la Fed, insieme a quasi tutte le altre banche centrali, sembra aver perso la fede in quella storia.
Invece, i banchieri centrali sembrano ora essere implicitamente (e forse anche inconsciamente) ritornati al punto di vista pre-monetarista: i compromessi tra inflazione e disoccupazione sono reali e possono durare molti anni. La politica monetaria dovrebbe gradualmente ricalibrare l’equilibrio tra questi due indicatori economici, mentre il ciclo economico va avanti. Quando l’inflazione è bassa, la priorità assoluta dovrebbe essere quella di ridurre la disoccupazione al livello più basso possibile; non c’è nessun motivo per cui la politica monetaria non dovrebbe contribuire alla creazione di posti di lavoro o alla crescita del PIL finché l’inflazione non rappresenta un pericolo imminente.
Ciò non implica tassi di interesse statunitensi permanenti prossimi allo zero. La Fed comincerà quasi certamente ad aumentare i tassi nel mese di dicembre, ma la stretta monetaria sarà molto più lenta rispetto ai cicli economici precedenti, e sarà motivata dalle preoccupazioni sulla stabilità finanziaria, non sull’inflazione. Di conseguenza, le paure – insieme al panico in alcuni mercati emergenti – circa l’impatto della stretta monetaria della Fed sulle condizioni economiche globali probabilmente si riveleranno ingiustificate.
La cattiva notizia è che la stragrande maggioranza degli analisti di mercato, ancora aggrappati alla vecchia disciplina monetarista, accuserà la Fed di “restare indietro”, permettendo alla disoccupazione di scendere troppo senza riuscire ad anticipare la minaccia di un’inflazione crescente. La Fed dovrebbe semplicemente ignorare tali proteste ataviche, come ha giustamente fatto la scorsa settimana.
Pubblicato su Project Syndicate il 22 settembre 2015.