di Carlo Clericetti
Prima venne Bill Clinton e i suoi “New Democrats”. Poco dopo Tony Blair che, con uno sforzo di fantasia, lanciò il “New Labour”. La sostanza era la stessa: accogliere concetti e paradigmi del neoliberismo per competere con i partiti conservatori sul loro stesso terreno. Naturalmente gli ideologi del “New” non la presentavano in questo modo. Affermavano di perseguire una “Terza via” tra le “vecchie idee” di derivazione socialista (ruolo dello Stato, welfare, protezione del lavoro, perseguimento dell’uguaglianza) e quelle diventate egemoni dall’inizio degli anni Ottanta.
Ora, se in America le differenze di fondo tra Democratici e Repubblicani non erano mai state davvero profonde, in Europa i partiti socialdemocratici e socialisti proponevano una visione di società alternativa a quella dei partiti moderati. Il “New” spazza via questa differenza: la sua Terza via, rispetto alla Prima – quella del capitalismo liberista – cambia solo nel nome. Potremmo ben definirla una trovata di marketing politico per tentare di nascondere una resa completa all’ideologia dominante.
Una resa destinata a coinvolgere anche gli altri partiti socialisti europei, specialmente in Germania, con il cancelliere Gerard Schröder che affida le riforma del lavoro e del welfare a Peter Hartz, ex capo del personale della Volkswagen condannato per mazzette e amenità varie, e in Italia, dove lo sbandamento della sinistra era totale già da un decennio, provocato dallo shock del PCI dopo la caduta del Muro e dalla fine della Prima Repubblica sotto i colpi delle inchieste Mani pulite.
Le conseguenze sono state un generale arretramento delle condizioni dei lavoratori, sia dal punto di vista delle norme che del reddito (ovunque diminuito come quota del PIL mentre aumentava quella dei profitti); e una progressiva riduzione del ruolo del settore pubblico – tuttora in corso – che veniva fatto ritirare dalla gestione diretta delle imprese, del credito, poi da quella dei servizi.
Oggi in Italia l’arretramento continua nei settori della salute, dell’istruzione, della previdenza, cioè a dire i capisaldi del welfare; nell’assistenza l’affidamento al privato (prevalentemente il cosiddetto terzo settore: ancora quell’aggettivo!) è già superiore al 50 per cento rispetto ai servizi gestiti direttamente da enti pubblici.
Nel Regno Unito sono molto più avanti. Il governo Cameron si è spinto dove neanche Margaret Thatcher aveva osato. Circa un anno fa ha varato una riforma del sistema sanitario nazionale che i media inglesi hanno definito «una privatizzazione strisciante», e da pochi mesi ha dato il colpo forse mortale a una previdenza pubblica che era già a livelli minimali.
Cameron aveva vinto le elezioni nel 2010, di misura. Ma in questi anni i laburisti hanno cambiato assai poco la loro linea blairiana. Sì, dopo la sconfitta elettorale Gordon Brown perse la segreteria a favore di Ed Miliband, che ha spostato l’asse un po’ più a sinistra. Ma le elezioni del maggio scorso, che hanno attribuito più seggi ai Tories mentre il Labour ne ha persi, sono state interpretate dalla maggior parte degli opinion makers politici e mediatici come una sconfitta di questo pur cauto maggiore progressismo.
In realtà di quel risultato si può dare una lettura molto diversa. La Caporetto del Labour è stata in Scozia, dove ha perduto la quasi totalità dei seggi a favore dello Scottish National Party, che ne ha presi 56 su 59. Ha pesato certo l’istanza nazionalista (poco prima nel referendum per l’indipendenza scozzese i separatisti avevano perso, ma non di molto). Ma è anche vero che l’SNP è orientato a sinistra più decisamente del Labour. Il quale Labour, peraltro, non è affatto crollato, ma ha aumentato i suoi voti, se pure di poco (l’1,5 per cento: comunque meglio dello 0,8 per cento in più di Cameron). La perdita dei seggi è stata provocata dal sistema elettorale inglese, maggioritario di collegio. Non c’è stata dunque quella “disfatta della sinistra” di cui ha parlato la maggior parte dei commentatori. Anzi, il segnale è stato che il “popolo di sinistra” voleva più sinistra, non meno.
Se serviva una verifica, c’è stata con l’elezione del nuovo segretario. In corsa c’erano tre blairiani e lui, Jeremy Corbyn, outsider assoluto che non aveva mai avuto incarichi di rilievo né nel partito né nel governo. Un signore cortese e non giovane (66 anni), che non parla affatto come un rivoluzionario («La creazione di ricchezza è una cosa buona»), ma che promette una prospettiva completamente diversa da quella che ci siamo abituati a sentir proporre non solo dai conservatori, ma anche dai leader dei partiti teoricamente socialdemocratici.
No a limitazioni del diritto di sciopero (l’ultima iniziativa di Cameron), più tasse ai ricchi, potenziamento del welfare (il leader Tory ha annunciato 12 miliardi di nuovi tagli), ri-nazionalizzazione delle ferrovie (la privatizzazione dagli esiti più disastrosi degli ultimi decenni) e forse anche dell’energia, investimenti pubblici. Niente di più di quello che tutti gli economisti al di fuori dell’ideologia dominante continuano a proporre fin dall’inizio della crisi.
Si capiscono i commenti catastrofisti, specie dei politici della finta sinistra “New”: metti che Corbyn vinca le prossime elezioni, poi quel programma lo mette in pratica, perché non ha, come Tsipras, alle spalle un paese al fallimento e non deve sottostare ai ricatti di Troike e compagnia. Non solo: il rischio più grande è che quel programma possa avere successo. Che disastro per i “nuovisti” passati e presenti…
Pubblicato su Repubblica il 16 settembre 2015.