Roma – Medici senza frontiere (Msf), l’organizzazione internazionale che porta assistenza medica a popolazioni colpite da guerre, crisi umanitarie e carestie, è in prima linea anche sull’emergenza migranti che si fa sempre più pressante in Europa. EUNEWS dedicherà un panel al tema nell’ambito di How can we govern Europe. Al dibattito parteciperà Gabriele Eminente, direttore generare di Msf Italia, per arricchire la discussione con una testimonianza diretta di cosa accade sul terreno. In vista dell’evento, gli abbiamo chiesto un’intervista per offrire ai nostri lettori una anticipazione di ciò di cui si parlerà.
Eunews: Direttore, di solito gli interventi di Msf sono in Paesi colpiti da guerre, crisi umanitarie, carestie. Ora invece state operando nel cuore dell’Europa.
Eminente: Purtroppo sì, perché nel cuore dell’Europa si è verificata una situazione che, nonostante fosse ampiamente prevedibile guardando alla storia degli ultimi anni, ha causato migliaia di vittime. Sono oltre 1.800 se si considera solo il Mediterraneo e solo gli ultimi mesi. Di fronte a tutto ciò, per noi è imperativo intervenire, non possiamo restare con le mani in mano.
Eu.: In quali aree prestate assistenza medica in relazione all’emergenza migranti?
Em.: L’intervento più recente, che ha carattere più emergenziale, è quello di ricerca e soccorso in mare nel tratto tra le coste libiche e l’Italia, dove siamo presenti con tre navi: due gestite completamente da noi e una insieme con Moas, una Ong maltese. In meno di cinque mesi abbiamo soccorso oltre 16 mila persone. Un secondo asse di intervento lo abbiamo messo in piedi nel Dodecanneso, nel momento in cui è stato chiaro che il flusso che cerca accesso all’Europa attraverso la Grecia sarebbe stato più importante che in passato. Abbiamo una presenza nelle isole di Kos e Lesbos, poi un sistema di intervento mobile lungo la dorsale da Atene all’ex Macedonia, e ancora in Serbia e al confine con l’Ungheria. In tutte queste zone forniamo assistenza medica.
Eu.: Oltre a questi interventi più emergenziali, quali sono le attività più strutturate?
Em.: Abbiamo attività di tipo più tradizionale in Italia e Grecia, dove siamo presenti in alcuni punti del sistema di accoglienza dei due Paesi. In Italia in particolare siamo a Pozzallo (Rg), con un ambulatorio nel centro di prima accoglienza, e interveniamo con un programma di salute mentale nei centri di seconda assistenza del ragusano.
Eu.: Che situazione c’è sul campo nelle zone dove operate?
Em.: Ci sono realtà molto diverse. Alcuni stati, come vediamo in questi giorni, sono del tutto impreparati a gestire la situazione – e questo nonostante, non mi stanco di dirlo, ci fossero tutte le premesse per prevedere quanto sta accadendo – e anche gli Stati che si sono mossi da tempo, e tra questi sicuramente l’Italia, hanno carenze. Nel sistema di accoglienza italiano, che è in piedi ormai da anni e anni, comunque ci sono molti punti da migliorare. Ricordiamo che anche in Italia, questa estate, ci sono stati momenti in cui era impossibile far sbarcare i migranti in Sicilia perché non c’erano sufficienti autobus per trasferirli dai porti di attracco ai centri di accoglienza. È abbastanza sconfortante perché sono cose basilari.
Eu.: Avete inviato una lettera aperta alle istituzioni europee e ai leader degli Stati membri. Cosa chiedete?
Em.: Abbiamo chiesto un colpo d’ala ai governanti europei in occasione dell’incontro di lunedì scorso tra i ministri degli Interni. Un colpo d’ala che certamente non c’è stato. È evidente che siamo ancora in una situazione di pantano, in cui non si riesce a intravvedere la volontà politica di affrontare questo tema. Quello che vediamo è che c’è una società civile, in Italia e in Europa, che è nettamente più avanti rispetto ai suoi governanti, che sono impantanati in numeri e cifre, per altro insufficienti, e dimenticano che dietro questi numeri ci sono persone.
Eu.: Qualora si trovasse finalmente un accordo sulla redistribuzione dei rifugiati, l’emergenza sarebbe risolta?
Em.: Bisogna intendersi su che tipo di accordo. Ci sono molti aspetti da mettere a fuoco. Ad esempio, noi non facciamo distinzioni, nel momento in cui prestiamo soccorso, se su quella barca ci sono persone in fuga da guerre – e quindi potenziali richiedenti asilo – o se sono migranti cosiddetti ‘economici’. Anche perché sono distinzioni che hanno sempre meno senso. Bisognerebbe vedere quanto un eventuale accordo tiri su dei muri tra queste categorie di persone. Bisogna vedere se l’accordo consente la possibilità di scegliere dove andare: molti dei migranti hanno una famiglia, degli amici che vogliono raggiungere e questo oggi, in virtù del regolamento di Dublino, non è sempre possibile. Bisogna vedere molto nel dettaglio che tipo di accordo possa essere raggiunto, ma noi auspichiamo che si arrivi presto a una soluzione.
Eu.: Chiedete corridoi sicuri per far arrivare i richiedenti asilo attraverso vie legali. Gli hotspot che l’Ue vuole creare nei paesi di origine o di transito – una sperimentazione dovrebbe partire in Niger – sono una opzione valida?
Em.: Noi siamo una organizzazione medico umanitaria e abbiamo l’umiltà di riconoscere i nostri limiti. Il nostro raggio d’azione è appunto quello medico sanitario e abbiamo il dovere di segnalare laddove c’è una emergenza di questo tipo. Non sta a noi dare agende o dettare regole. Quello che noi vediamo tutti i giorni è che anche coloro che secondo il diritto internazionale avrebbero pieno titolo a richiedere immediatamente asilo, sono costretti a intraprendere viaggi molto rischiosi. Questo è del tutto inaccettabile. Poi c’è da vedere come questo sistema di hotspot verrà congegnato. Bisogna capire, essendone previsti diversi anche in Europa, in Italia, come saranno raggiunti dai migranti, che tipo di meccanismi saranno previsti, ad esempio, per raccogliere l’identificazione. Perché si parla addirittura dell’uso della forza per raccogliere le impronte digitali. Bisogna uscire dalla logica del chiudersi nella fortezza Europa e bisogna prendere atto di una situazione le cui origini sono guerre terribili che si stanno combattendo alle porte di casa nostra e che magari abbiamo fatto finta fino a ieri di non vederle.