E’ il 4 ottobre del 2008, sono passate appena tre settimane dal crac di Lehman Brothers ma la marea nera della crisi ha già traversato l’Atlantico, l’Irlanda è la prima vittima e il governo di Dublino annuncia che garantirà tutti i depositi delle banche che stanno per saltare. Da Berlino arrivano critiche severe da Angela Merkel, cancelliera da meno di tre anni, che assicura: nessun piano simile in Germania. Poi qualcuno deve averle fatto vedere dei sondaggi, e il giorno dopo si precipita a rettificare: anche la Germania garantirà il 100 per cento dei depositi se le banche dovessero fallire. Due giorni dopo, il 6 ottobre, si viene a sapere che si tratta di un puro impegno politico, che non sarà sancito per legge. Ma tanto basta per costringere altri governi europei a dare le stesse garanzie. Mancano ancora due anni all’inizio della crisi greca, che terrà bloccata l’Unione per 5 anni mettendo a rischio la sopravvivenza dell’euro. Ma le premesse per una gestione approssimativa e demagogica, fatta di ultimatum e dietrofront guidati dai sondaggi, che trasformerà un problema da qualche decina di miliardi, assolutamente sostenibile, in una quasi catastrofe continentale, sono state gettate. Lo stesso schema viene adottato con l’Ucraina: prima si lascia intravvedere un impossibile ingresso nell’Unione Europea e nella Nato, poi le cose sfuggono di mano, e in un paio d’anni il paese dell’ex Unione Sovietica è allo sbando, devastato dalla guerra civile, con migliaia di morti e un bel pezzo di fatto finito sotto il controllo russo. Oggi si replica con l’emergenza migranti. Nella generosa Germania c’è posto per 800.000, basta che quei nazisti di ungheresi li lascino passare. Qualche giorno dopo Angela manda il ministro dell’Interno in tv a dire che ne sono arrivati 60.000, e sono già troppi. Poi il portavoce di Angela precisa che l’impegno tedesco all’accoglienza rimane intatto. Lo schema si ripete, l’Europa a trazione tedesca continua a passare da una crisi all’altra, ma il danno principale non è tanto l’improvvisazione e l’inclinazione demagogica di Berlino, quanto il fatto di proporsi come modello per gli altri paesi.
Il problema con i modelli tedeschi è che funzionano soltanto per i tedeschi, mentre agli altri toccano effetti collaterali disastrosi. Prendiamo il modello di un’economia risparmiosa, che consuma poco, e accumula surplus imponenti grazie alle esportazioni. Perché funzioni bisogna che gli altri, almeno in parte, facciano l’opposto: consumino molto, importino prodotti tedeschi ed esportino poco. Se tutto il mondo diventasse una grande Germania che accumula ricchezza esportando, a chi andrebbe a vendere i suoi prodotti, ai marziani? Adesso c’è il modello della generosità con i migranti, specialmente se di carnagione non troppo scura, che ha anche le sue convenienze. Sono giovani, hanno voglia di lavorare, con i loro contributi aiuteranno a pagare pensioni e sanità dei tedeschi sempre più vecchi. In Germania – a differenza di praticamente tutto il resto d’Europa – c’è un deficit di occupazione e un surplus di capacità produttiva. Un gap che va colmato, altrimenti come si fa a tenere il ritmo delle esportazioni? Ma se c’è questo disperato bisogno di lavoratori per far continuare a correre la locomotiva tedesca, forse i cittadini europei, in quanto tali, non dovrebbero avere quanto meno la precedenza? Soprattutto se vivono in paesi dove la disoccupazione è a due cifre e i governi non possono spendere in investimenti perché hanno le mani legate dal fiscal compact voluto proprio da Berlino. Invece spazio ai migranti non europei, con una distinzione: sì a quelli che fuggono da guerre e dittature sanguinarie, no a quelli cosiddetti economici, cioè che fuggono per fame. I primi sono più evoluti dei secondi, hanno studiato, avevano un lavoro, sono la parte pregiata di società in dissoluzione. Potrebbero esserne la classe dirigente quando saranno ricostruite, una volta cacciati gli oppressori e superata la crisi. Sarebbe più sensato aiutarli a restare, magari in campi speciali nelle vicinanze, tipo in Turchia, in vista della ricostruzione. Portarli definitivamente in Europa vuol dire privare quei paesi di risorse umane vitali per il futuro e lasciare campo libero a chi li sta devastando. Diverso il caso dei migranti economici. Sono un fardello per i paesi da cui fuggono, ma anche braccia da impiegare, magari in agricoltura, che in Europa viene abbandonata. Gli Stati Uniti, che tutti ora dicono che l’Europa deve imitare, sono stati costruiti con questo tipo di migranti, gente spinta dalla fame e disposta ad andare in miniera. Per poi consolidarsi, istruirsi, e magari aspirare a diventare classe dirigente in quattro o cinque generazioni.
La generosità tedesca è già stata sperimentata, proprio dai tedeschi. Quella generosità che regalò ai cittadini dell’Est il cambio del marco 1-a-1 dopo la caduta del muro. Qualche soldo in tasca ai consumatori di oltre cortina, affamati di beni di consumo occidentali. Ma anche un colpo di grazia all’economia dell’Est. Il marco rivalutato spedì fuori mercato da un giorno all’altro l’industria dell’Est, che finì per chiudere o essere svenduta a prezzi da saldo ai giganti dell’Ovest. Ai cittadini dell’Est, oltre a qualche marco in più in tasca, rimasero solo le braccia, ma senza le macchine con cui lavorare. Un quarto di secolo dopo la caduta del muro, gli standard di vita dei cittadini dell’Est sono ancora di un terzo sotto quelli del ricco Ovest. Sembra la vecchia canzone di Lucio Battisti “una donna per amica” questa Germania, ma al contrario: sempre insegna ma quasi mai impara.