di Massimiliano Calì
I flussi in prospettiva
L’ondata di profughi verso l’Europa ha scosso le coscienze di molti cittadini, ma i governi sono riluttanti a offrire asilo ai milioni che fuggono da guerre e persecuzioni. Questa riluttanza ha in parte a che fare con l’idea che un tale flusso di profughi sia economicamente insostenibile. Ma l’esperienza degli stati vicini alla Siria racconta un’altra storia. Per prima cosa, è utile mettere i flussi di profughi in prospettiva. Dall’inizio di quest’anno fino ad agosto, i paesi UE hanno ricevuto 417.430 domande di asilo (tra siriani e altri), in totale dal 2012 si arriva a 1,8 milioni di richieste. Nello stesso periodo, in Libano si sono registrati con UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) 1,1 milioni di profughi siriani, un quarto della popolazione del paese. Per l’Italia, un flusso simile equivarrebbe a 15 milioni di profughi, pari all’intera popolazione mondiale di rifugiati registrati con UNHCR. E anche se il nostro paese ne accettasse “solo” il 2,6 per cento della propria popolazione, come fa la Turchia, dovrebbe accogliere un milione e mezzo di profughi.
Nessun collasso economico
A sentire le cassandre europee le economie dei paesi che hanno accolto un numero di profughi pari a un quarto (o anche a solo il 2,6 per cento) della propria popolazione dovrebbero essere destinate al collasso. I numeri dei paesi vicini alla Siria dicono altro. Le economie di Libano, Turchia e Giordania hanno mantenuto tassi di cresciuta consistenti dall’inizio dell’arrivo dei profughi. Quest’anno la Banca mondiale stima una crescita reale del PIL libanese del 2,5 per cento, il tasso più alto dal 2010, nonostante gli effetti negativi che la guerra in Siria ha generato in termini di conflitti armati e collasso di investimenti e turismo dai paesi del Golfo. Un nostro rapporto per la Banca mondiale mostra come proprio il flusso di profughi siriani abbia aiutato l’economia libanese a mantenere tassi positivi di crescita, generando un aumento della domanda per servizi prodotti localmente. La domanda è finanziata da risparmi propri, da reddito da lavoro, da rimesse dall’estero e da aiuti internazionali. I soli 800 milioni di dollari in aiuti umanitari che l’ONU sborsa annualmente in Libano per i rifugiati siriani hanno contribuito per l’1,3 per cento del PIL del paese. L’impatto positivo dei profughi è anche in linea con quello stimato sulle comunità in Tanzania, che negli anni Novanta ospitavano profughi da Burundi e Ruanda.
Il mercato del lavoro
Anche se l’arrivo dei profughi non produce il collasso dell’economia, potrebbe però avere effetti negativi sull’impiego o sui salari delle occupazioni dove si concentra il loro lavoro. Uno studio recente mostra che i profughi siriani in Turchia hanno rimpiazzato parte della manodopera locale, principalmente tra lavoratori informali e part-time. Ma l’ingresso dei profughi ha anche determinato la crescita dell’occupazione dei lavoratori turchi nel settore formale e questa riallocazione ha contributo a un aumento del salario medio. Anche in Giordania l’impatto sul mercato del lavoro è stato finora modesto: la disoccupazione non è cresciuta nelle zone dove si concentrano i profughi siriani, che hanno aumentato l’offerta di lavoro in settori intensivi in manodopera non qualificata con bassa presenza di lavoratori giordani. Quest’evidenza è anche in linea con il modesto (e in genere positivo) impatto netto dei flussi di migranti economici e profughi sul mercato del lavoro nei paesi ad alto reddito.
Un fardello fiscale?
Un altro timore tipico è quello fiscale: per garantire un livello adeguato di servizi ai profughi occorre una spesa che non ci possiamo permettere. Anche qui l’esperienza della Turchia racconta una storia diversa. Il governo turco fornisce ai profughi registrati accesso gratuito a servizi di istruzione e sanitari e ospita chi ne ha bisogno in quelli che il New York Times ha definito «campi profughi perfetti». Per fornire questi servizi il governo turco ha speso finora 5,37 miliardi di euro, interamente finanziati dalle proprie entrate fiscali. E per quanto sia una spesa ragguardevole, non ha minato la sostenibilità fiscale del paese. Cifre simili appaiono alla portata della UE, la cui economia è ventitré volte più grande di quella turca. E si può aumentare la sostenibilità delle spese rendendo possibile ai nuovi arrivati l’integrazione nel mercato del lavoro come insegna l’esperienza britannica. Tutto ciò non implica che accettare un flusso di profughi consistente non abbia importanti ripercussioni sociali, politiche e anche economiche, che infatti continuano a riverberare nei dibattiti in Libano, Turchia e Giordania. Ma l’esperienza di questi paesi fornisce un’importante lezione ai ben più ricchi stati europei: con un po’ di pianificazione e buona volontà l’Europa potrebbe accogliere un numero di disperati in fuga da guerre e persecuzioni di gran lunga maggiore di quello che ha accolto finora.
Pubblicato su lavoce.info l’11 settembre 2015.