di Anne Hammerstad
È un copione già visto: centinaia di migliaia di persone che si mettono in viaggio su imbarcazioni improvvisate, spesso trovando la morte in mare, mentre i governi regionali si rifiutano di condurre operazioni di ricerca e soccorso per paura di produrre un “effetto di richiamo”, e allo stesso tempo cercano di rendere le condizioni all’arrivo inospitali al fine di scoraggiare altri dall’affrontare lo stesso viaggio. Eppure la gente continua ad arrivare.
Nei vent’anni successivi al ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam, nel 1975, tre milioni di persone sono fuggite dai regimi comunisti del Vietnam, della Cambogia e del Laos. Più di un milione di questi erano cosiddetti “boat people”. Stiamo parlando di un altro mare e di un’altra epoca storica, ma la crisi dei rifugiati dell’Indocina può offrici delle importanti lezioni sull’attuale esodo siriano. I rifugiati di oggi affrontano il Mediterraneo su gommoni, navi da pesca e scafi in acciaio, e poi continuano la traversata via terra attraverso l’Europa del Sud e dell’Est a piedi, in bici, sugli autobus e sui treni. Seguono le stesse rotte dei richiedenti asilo che arrivano da altre zone travagliate del mondo e dei migranti economici che arrivano dall’Africa subsahariana. Secondo l’agenzia per i rifugiati dell’ONU, l’UNHCR, i rifugiati siriani rappresentano il 53 per cento dei quasi 400.000 migranti che quest’anno sono entrati illegalmente in Europa via mare.
La crisi dei rifugiati dell’Indocina fu eventualmente risolta grazie ad un programma di reinsediamento che coinvolse un’ampia coalizione di paesi. Come oggi, i governi si decisero ad assumersi le loro responsabilità solo in seguito ad innumerevoli tragedie – e alla drammatica situazione politica ed umanitaria che si venne a creare in paesi di destinazione come la Malesia, la Tailandia e l’Indonesia –, che catalizzarono l’attenzione dei media. Ma alla fine si decisero, e a partire dal gennaio del 1979, la comunità internazionale, guidata dagli Stati Uniti, reinsediò in soli diciotto mesi 450.000 rifugiati indocinesi. All’inizio degli anni Novanta erano più di un milione i rifugiati che si erano stabiliti negli Stati Uniti. 400.000 di questi erano “boat people”. Francia, Canada, Australia e altri paesi accolsero anch’essi un gran numero di rifugiati, all’insegna di un programma di reinsediamento battezzato “Open shores for open doors” (‘Coste aperte per porte aperte’).
In epoca moderna abbiamo numerosi altri esempi di programmi di reinsediamento di massa. Gli ungheresi emigrati dopo la rivolta del 1956 e gli albanesi kosovari in fuga dalla “pulizia etnica” durante la guerra del Kosovo del 1999 sono esempi di rifugiati che beneficiarono di ambiziosi programmi di reinsediamento per alleviare i problemi di natura umanitaria e di sicurezza nei paesi di primo asilo. Tra aprile e giugno del 1999, la NATO reinsediò 86.783 kosovari albanesi in trenta paesi diversi, perlopiù in Europa e America settentrionale.
Ma oggi viviamo in un mondo diverso, in cui la maggior parte dei governi dei paesi ricchi non vede il reinsediamento come uno strumento utile e necessario di protezione dei rifugiati ma come un fardello da evitare.
Solo una piccola frazione dei rifugiati del mondo, oggi, viene reinsediata. Enormi masse di persone languono per anni e in alcuni casi per decenni in sconfinati campi profughi, come il complesso di Dadaab in Kenya, creato a seguito della guerra civile in Somalia, e quello di Zaatari in Giordania, che ospita circa 80.000 rifugiati siriani.
Alcune delle critiche rivolte ai programmi di reinsediamento sono fondate. L’ideale sarebbe, ovviamente, che un giorno i rifugiati tornassero nei loro paesi d’origine e dunque che nel frattempo fossero ospitati in paesi vicino al loro, per motivi sia economici che di affinità culturale e sociale. Ma in alcuni casi i programmi di reinsediamento di massa sono inevitabili. Al momento è impossibile intravedere la fine del conflitto in Siria. Il reinsediamento di una percentuale relativamente piccola ma significativa di rifugiati siriani allevierebbe la situazione caotica a cui assistiamo oggi in Europa. Aiuterebbe anche a stabilizzare la situazione in Turchia, Libano e Giordania, ormai vicini al livello di saturazione. E contribuirebbe a ribadire il principio, affermatosi dopo gli scempi della seconda guerra mondiale, che tutti gli Stati hanno una responsabilità comune di fronte a chi scappa dalla guerra e dalla persecuzione.
Sono più di quattro milioni i rifugiati siriani oggi nel mondo. Più del 90 per cento di loro si è limitato ad attraversare il confine siriano. La Turchia ospita 1,9 milione di rifugiati, il Libano 1,1 milioni – pari ad un quarto della popolazione del paese – e la Giordania 630.000. Finché la crisi è rimasta confinata a quella regione, il mondo ha perlopiù ignorato la crisi che lì andava montando. La maggior parte dei rifugiati siriani arrivava nei paesi limitrofi con un po’ di risparmi con cui pagarsi un affitto ed un’educazione e magari trovare un lavoro. Altri avevano la possibilità di trovare cibo e assistenza sanitaria nei campi profughi.
Ma ormai la guerra va avanti da cinque anni. I rifugiati continuano ad aumentare e sono sempre meno benvenuti nei paesi di arrivo; chi aveva dei risparmi li ha ormai dilapidati, mentre l’assistenza umanitaria per i meno fortunati scarseggia sempre di più. Quest’anno l’ONU ha ricevuto il 37 per cento dei fondi necessari per far fronte alle esigenze umanitarie – cibo, assistenza sanitaria, educazione, ecc. – degli sfollati siriani. Il bilancio dell’UNHCR quest’anno è diminuito del 10 per cento rispetto all’anno scorso, portando l’alto commissario per i rifugiati, Antonio Guterres, a sostenere che l’organizzazione è «al verde». I rifugiati, avendo terminato i risparmi, stanno cominciando ad indebitarsi sempre di più. L’affitto e il costo della vita nei paesi limitrofi alla Siria sono aumentati drammaticamente negli ultimi anni. Da un recente studio dell’UNHCR è emerso che il 70 per cento dei rifugiati siriani in Libano oggi vive al di sotto della soglia di povertà.
Di fronte al crescente bisogno di assistenza, il sistema umanitario non ha retto. Il Programma alimentare mondiale ha recentemente comunicato ai 229.000 rifugiati in Giordania che non riceveranno più buoni pasto a causa dei tagli nei finanziamenti. Secondo l’UNHCR, sono almeno 70.000 i bambini rifugiati siriani che non hanno accesso all’educazione.
Ma oggi non esiste alcuna via sicura e legale con cui i rifugiati siriani possono arrivare in Europa, o in qualunque altra parte del mondo. Sono dunque costretti a ad affidarsi a trafficanti di esseri umani senza scrupoli, il che li trasforma da rifugiati in “immigrati illegali”.
Gli studi sui rifugiati vietnamiti reinsediati negli Stati Uniti dimostrano che coloro che avevano sofferto l’esperienza traumatica e pericolosa della traversata in mare hanno avuto maggiori difficoltà ad adattarsi alla loro nuova vita “normale” di coloro che avevano beneficiato dei cosiddetti Orderly Departure Programmes (‘Programma di partenze organizzate’). È nell’interesse di tutti offrire ai rifugiati siriani delle vie sicure e legali per raggiungere quei paesi in cui possono rifarsi una vita ed educare i loro figli.
Abbiamo bisogno di un ambizioso programma di reinsediamento per una parte dei profughi siriani che attualmente si trovano in Turchia, Libano, Giordania, Egitto ed Iraq. Ma questo deve essere accompagnato da un maggiore sostegno economico e politico a quegli Stati che sono al centro di questo disastro umanitario. Non possiamo tagliare le derrate alimentari per i rifugiati in Giordania e poi sorprenderci se la gente abbandona il paese verso altre mete.
Perché un programma del genere funzioni, saranno necessari seri negoziati tra i paesi in prima linea e quelli che dovranno accogliere i rifugiati. La crisi dei rifugiati siriani non è un problema europeo. Gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e gli altri paesi ricchi – inclusi i paesi del Golfo – dovranno tutti fare la loro parte.
In questi giorni la Germania è diventata un faro di speranza e di decenza per la sua decisione di accogliere tutti i rifugiati siriani. Adesso i governi del Regno Unito, della Francia, dell’Australia e di qualche altro paese hanno annunciato che accoglieranno una quota di rifugiati più alta del previsto. Questi sono tutti passi nella giusta direzione, ma le dichiarazioni unilaterali e le decisioni ad hoc non sono sufficienti. Abbiamo bisogno di uno straordinario sforzo collettivo di solidarietà globale. Ci siamo riusciti in passato. Le recenti manifestazioni di solidarietà nei confronti dei siriani a cui abbiamo assistito in varie città europee sono la dimostrazione che possiamo riuscirci nuovamente.
Pubblicato sul sito di Reuters il 10 settembre 2015.