Bruxelles – C’è consenso tra gli Stati europei sul piano della Commissione europea per la redistribuzione di 120mila rifugiati, presentato dal presidente Jean-Claude Juncker mercoledì scorso a Strasburgo. Lunedì, al Consiglio Affari interni straordinario sul tema, si attende un via libera politico alla proposta che potrebbe essere formalmente adottata dal Consiglio europeo di ottobre. Al momento ci sarebbe solo una minoranza di quattro Paesi decisi a opporsi al progetto. I più forti oppositori sono Repubblica Ceca e Slovacchia, dubbiosa anche la Polonia, che però starebbe cambiando posizione, e infine l’Ungheria che sta tenendo una serrata trattativa ma che non si è ancora capito bene a cosa miri. Il Paese governaro da Viktor Orban sarebbe infatti uno di quelli che dovrebbe beneficiare di questo accordo insieme a Grecia e Italia, e dovrebbe attenere di poter mandare 54mila rifugiati negli altri Paesi membri. Insomma avrebbe solo da guadagnare da questo progetto e invece ha formalmente chiesto di esserne escluso. La richiesta, spiegano fonti diplomatiche, “non ha interrotto le trattative col Paese, di cui si sta occupando la presidenza di turno lussemburghese, e l’impressione è quindi che miri piuttosto ad ottenere qualcosa con questa mossa piuttosto che a volersi davvero tirare fuori”.
Fatto sta che in ogni caso questi quattro Paesi non sarebbero, anche volendolo, in grado di bloccare il provvedimento se volessero forzare il Consiglio di lunedì ad andare a una votazione. “Gli altri Stati hanno i numeri per passare sopra la loro testa e obbligarli a digerire la proposta, se sono intelligenti e non andranno a uno scontro di forza che non possono vincere potrebbero ottenere qualcosa”, continua ancora la fonte.
Le quote dei rifugiati da redistribuire, che continuano a non potersi assolutamente chiamare quote, saranno obbligatorie. O meglio dovrebbero essere obbligatori da una parte la partecipazione al programma, dall’altra i criteri di redistribuzione (40% per il volume della popolazione, 40% per il Pil, 10% per la media delle domande di asilo presentate in passato, 10% per il tasso di disoccupazione). Che in sostanza vorrà dire che ogni Stato dovrà farsi carico del numero dei migranti già calcolato dalla Commissione, con alcuni aggiustamenti dovuti al fatto che l’Irlanda, che grazie all’opt in disponeva dell’opportunità di tirarsi fuori dal programma, ha invece deciso ieri di aderire.
Delle discussioni sarebbero in corso anche sulla clausola che concede a un Paese di non partecipare temporaneamente alla ricollocazione per motivi “giustificati e obiettivi”, ma obbligandolo comunque contribuire finanziariamente al progetto versando nel bilancio Ue un importo pari allo 0,002% del suo Pil. A essere contraria sarebbe soprattutto la Germania, ma la cosa difficilmente diventerà motivo di scontro e quindi dovrebbe essere accettata. Gli sherpa dei ministri a Bruxelles stanno lavorando alacremente e la presidenza lussemburghese punta ad arrivare al Consiglio Ue di lunedì con un testo già chiuso, che dovrebbe solo essere approvato dai ministri degli Interni dei Paesi membri.
Il Consiglio poi adotterà definitivamente la decisione presa a luglio scorso sugli altri 32mila rifugiati da redistribuire, che dovrebbero diventare entro fine anno, nelle intenzioni di Bruxelles, 40mila come inizialmente richiesto. Si troverà poi anche un accordo sulla lista dei Paesi di origine sicuri, che dovrebbero essere quelli che hanno in qualche modo già iniziato il percorso verso l’adesione, ovvero l’Albania, la Bosnia-Erzegovina, l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia, il Kosovo, il Montenegro, la Serbia e la Turchia. Gli unici dubbi sono su quest’ultima, visto che la lista significherà che i cittadini di quei Paesi avranno più difficoltà ad ottenere lo status di rifugiato politico, e questo potrebbe essere un problema per i curdi. E sarebbe un messaggio anche piuttosto ambiguo visto quello che sta succedendo nel Paese in questo momento.
Infine si dovrebbero approvare tutte le altre parti della proposta, in particolare l’accento posto sulla politica dei rimpatri, tema su cui si lavorerà molto anche in futuro e che alcuni Stati, in primis l’Italia, spingono perché diventi sempre di più una pratica da gestire in maniera europea, anche a livello di mezzi e fondi, e da non lasciare più agli Stati membri.