di Philip Cunliffe
Di fronte alla punizione inflitta a Syriza dall’Unione europea e alla pessima gestione della crisi da parte del partito che fa capo ad Alexis Tsipras, la sinistra europea sta abbandonando la strategia dell’“euro buono” – la speranza di poter superare l’austerità rimanendo all’interno della cornice dell’eurozona – e sta battendo una rapida ritirata verso gli Stati nazionali. C’è chi invoca esplicitamente la restituzione della sovranità fiscale e monetaria ai singoli Stati nazionali e addirittura chi invoca la ricerca di alternative politiche all’infuori dell’UE stessa. Che sia caduta l’illusione dell’“Europa sociale” è un fatto che va salutato positivamente. Ma ora la sinistra europea rischia di sostituire una chimera per un’altra: il ritorno alla socialdemocrazia nazionale.
Questa improvvisa riscoperta della dimensione nazionale rappresenta una drammatica inversione di tendenza per la sinistra. È vero, una parte della vecchia socialdemocrazia ha sempre guardato con sospetto alla globalizzazione e alle istituzioni sovranazionali ad essa associate, ma nel corso degli ultimi trent’anni buona parte della sinistra ha abbracciato le ideologie e le istituzioni globaliste in una forma o nell’altra. A un estremo dello spettro politico si collocavano i movimenti in stile “terza via”, che sposavano entusiasticamente il centrismo politico, la competitività internazionale, il libero commercio e l’integrazione europea come elementi necessari della battaglia progressista. All’altro capo dello spettro politico vi erano i movimenti anti-globalizzazione e le organizzazioni non governative, che speravano di spostare il terreno della lotta progressista dalla dimensione nazionale a quella transnazionale attraverso un coordinamento tra i vari movimenti sociali. Uno dei problemi con la recente riscoperta dello Stato da parte della sinistra è che quest’ultima non sembra avere un’idea chiara di ciò da cui sta fuggendo, e di quello che non va con l’Unione europea. Stathis Kouvelakis, esponente dell’ala sinistra di Syriza, ha accusato l’Unione europea di essere «imperialista»; Cedric Durand ha scritto che l’Unione europea è un proto-Stato nato per servire gli interessi del capitalismo neoliberista.
L’articolo di Durand è paradigmatico della confusione che caratterizza molte analisi di sinistra dell’UE. Da un lato Durand accusa l’UE di essere una macchina troppo grande e complessa per poter essere facilmente riformata, rendendola impermeabile alla volontà popolare; dall’altro critica l’UE per il suo minuscolo apparato burocratico e per il fatto di non avere a disposizione gli strumenti istituzionali necessari per implementare trasformazioni sociali e politiche su larga scala. Secondo questa lettura, l’Unione europea sarebbe al tempo stesso un Leviatano monolitico e tentacolare e un proto-Stato ridotto all’osso e asservito agli imperativi del neoliberismo. Durand traccia un contrasto implicito tra il proto-Stato “cattivo” dell’UE, volontariamente privato degli strumenti necessari per “domare” il neoliberismo, e lo Stato nazionale “buono” e progressista. Ma questo contrasto presenta numerosi problemi.
Innanzitutto, l’UE non è uno Stato, proto-, imperialista, neoliberale o di altro tipo. Tracciare una distinzione concettuale tra la burocrazia europea e la burocrazia dei suoi Stati membri, come fa Durand, è un errore cardinale. Perché mai l’UE dovrebbe avere una sua burocrazia indipendente quando essa non rappresenta altro che un sistema di coordinamento regionale tra le varie burocrazie nazionali? Come ha spiegato Cristopher Bickerton, l’UE non rappresenta un nuovo tipo di Stato ma una nuova protuberanza del vecchio Stato-nazione. L’UE è il risultato di trent’anni di sforzi da parte degli Stati europei per neutralizzare le lotte sociali e il conflitto popolare, nel corso dei quali la sconfitta e l’erosione della socialdemocrazia è stata istituzionalizzata a livello paneuropeo. L’errore che commette tanto la sinistra europeista quanto quella antieuropeista è di non rendersi conto che l’UE nasce dai fallimenti e dai compromessi della socialdemocrazia nell’epoca della Guerra Fredda.
Se è vero che l’impalcatura dell’UE, oggi, appare sempre più fragile, sarebbe un grave errore pensare che dalle ceneri di una sua eventuale disgregazione possa riemergere una socialdemocrazia nazionale, dal momento che l’Unione europea è nata proprio dalle ceneri di quel modello. Durand stesso sembra riconoscere implicitamente questo punto, data l’interpretazione molto limitata che dà di sovranità nazionale: «Formulare proposte politiche che garantiscano ai cittadini una rete di sicurezza sociale in questa fase di transizione sarà un elemento chiave di qualunque successo elettorale, a partire dalle elezioni spagnole in autunno». Secondo questa lettura, la capacità dello Stato di offrire un livello di protezione minimo di fronte alla miseria provocata dal vecchio modello socialdemocratico sostituisce dunque l’imperativo dell’autodeterminazione popolare come elemento distintivo della sovranità nazionale.
Andare alla ricerca delle rovine della socialdemocrazia tra i resti dell’edificio fatiscente dell’UE non porterà da nessuna parte, dal momento che queste rovine sono le fondamenta stesse su cui si regge l’attuale ordine europeo. In seguito alle sconfitte degli anni settanta e ottanta, molti a sinistra hanno abbracciato l’“Europa sociale” nella speranza di rimpiazzare a livello sovranazionale quelle protezioni che venivano progressivamente smantellate a livello nazionale. Dietro alle fantasie sull’“Europa sociale”, la “società civile globale” o la “resistenza globale” si nascondeva però il disprezzo di buona parte della sinistra per la democrazia di massa e il sostegno popolare. Sarebbe veramente grottesco se adesso la sinistra replicasse lo stesso errore al contrario, abbandonando il miraggio dell’“Europa sociale” per il deserto della socialdemocrazia nazionale. Prima ancora di toccare con mano il potere, il leader di Podemos, Pablo Iglesias, già sembra trovarsi a suo agio in questo deserto, come evidenziato dalla sua scelta di rinunciare alla possibilità di un movimento alternativo di massa in nome del compresso con la socialdemocrazia spagnola.
Per evitare di cadere preda di facili illusioni, sia pro- che antieuropeiste, è importante che la sinistra metta al centro della sfida contro l’UE non la sterile contrapposizione tra dimensione nazionale e dimensione sovranazionale, nella speranza di difendere (ciò che rimane) dello stato sociale, ma innanzitutto la restaurazione dell’autodeterminazione popolare – in altre parole, della sovranità.
Pubblicato sul blog dell’autore il 10 agosto 2015.