di Luigi Pandolfi
Si annuncia caldo il prossimo autunno europeo, se non altro per alcuni appuntamenti elettorali che potrebbero incidere molto sul futuro dell’Unione. C’è la Spagna, su cui sono maggiormente puntati i riflettori, ma c’è anche il Portogallo, altro paese che in questi anni è stato sottoposto a commissariamento da parte della troika. Anche qui le elezioni, fissate per il prossimo 4 ottobre, risentiranno degli effetti delle politiche di “risanamento” degli ultimi cinque anni, ma, almeno per il momento, non si intravedono sconquassi del quadro politico tradizionale.
Stando ai sondaggi che circolano, la contesa sarebbe ancora tra conservatori e socialisti, con i secondi leggermente in testa. I comunisti del PCP e la sinistra del Bloco de Esquerda, formazione organica al Partito della Sinistra Europea di cui fa parte anche Syriza, otterrebbero buoni risultati, ma sarebbero fuori dalla competizione per il governo. Fallito invece, salvo sorprese, il tentativo di costruire in Portogallo qualcosa di simile al Podemos spagnolo.
Eppure la situazione nel paese rimane difficile, molto difficile. I tecnici della troika, meno di un anno fa, avevano promosso a pieni voti il governo di Pedro Passos Coelho, per il modo con cui erano state portate avanti le “riforme” e per i risultati di bilancio ottenuti. Invero, se da un lato il deficit del bilancio statale è passato dall’8,3% del 2011 all’attuale 3%, grazie ai tagli vigorosi apportati alla spesa pubblica ed all’inasprimento della pressione fiscale (le tasse sui redditi sono aumentate di circa il 30%), dall’altro si registra una regressione nelle condizioni materiali di vita dei cittadini che, eccetto il caso greco, non ha eguali nel resto d’Europa.
Non solo. A parte i dati sulla disoccupazione e sulla povertà, colpisce molto anche il livello di deterioramento della situazione debitoria del paese. Sommando debito del settore privato, escluse le banche, e debito pubblico, si arriva ad una esposizione che in rapporto al PIL fa il 300%. Un quadro allarmante, che non fa presagire nulla di buono per il futuro. Ci vuole poco a capire, infatti, che i timidi segnali di ripresa registrati in questi anni sono del tutto insufficienti per parlare di sostenibilità del debito, e che il rischio di un nuovo default potrebbe essere dietro l’angolo.
Nel frattempo le proteste di piazza non si fermano. L’ultima in ordine di tempo lo scorso 22 luglio, quando migliaia di lavoratori del settore pubblico hanno manifestato davanti alla sede del parlamento, per chiedere al governo la fine delle politiche di austerità. Molto attivo, su questo versante, è stato in questi anni il movimento Que se lixe a troika! Queremos as nossas vidas! (‘Al diavolo la troika! Rivogliamo le nostre vite!’), fenomeno molto simile a quello degli indignados spagnoli, protagonista delle grandi manifestazioni del biennio 2012-13. Nondimeno, se a Madrid l’esperienza degli indignados è stata decisiva per la nascita di Podemos, per l’affermazione di una proposta politica alternativa al quadro politico esistente, in Portogallo le piazze anti-austerity non hanno avuto la stessa evoluzione. In questo quadro va letto anche il mancato decollo di Juntos Podemos, il movimento guidato dall’ex esponente del Bloco de Esquerda Joana Amaral Freitas, che lo scorso mese di dicembre aveva tenuto a battesimo la sua assemblea generale (Assembleia Cidadã), con lo sguardo rivolto oltre confine, verso il partito di Pablo Iglesias e Iñigo Errejón.
C’è da chiedersi, allora: chi raccoglierà alle prossime elezioni politiche l’eredità delle lotte di questi anni? Non certo la sinistra radicale, che, stando agli ultimi rilevamenti, non farebbe registrare significativi balzi in avanti, fatto salvo un recupero – rispetto alle scorse politiche – di un paio di punti percentuali da parte dei comunisti del PCP, dato intorno al 10 per cento. Più probabilmente, una parte del dissenso andrà ad ingrossare il bacino dell’astensionismo, il resto finirà per votare il Partito socialista.
Il sindaco di Lisbona António Costa, vincitore delle primarie socialiste per la candidatura a premier, non ha fatto mistero, d’altronde, che il suo partito, una volta al governo, potrebbe sfidare a viso aperto i creditori, con l’obiettivo di mettere fine alla spirale debito-austerità. «C’è bisogno di un’alternativa che ci permetta di voltare pagina rispetto all’austerità, per rilanciare l’economia, creare posti di lavoro e ridare speranza a questo paese», ha dichiarato meno di due mesi fa. Parole in linea con il piano anti-crisi che lo stesso Costa ha presentato nello scorso mese di marzo. Un pacchetto di 55 provvedimenti, finalizzati a sostenere la crescita e l’occupazione, a rilanciare la sanità e l’istruzione pubblica, a rendere più difficile il licenziamento dei lavoratori da parte delle aziende. Molti osservatori hanno fatto notare che queste misure, ad effetto reflattivo, sarebbero del tutto incompatibili con gli obbiettivi di finanza pubblica imposti al paese dalla troika e con le regole del fiscal compact. I socialisti ne sono consapevoli, non a caso, pur ribadendo di non voler stravolgere i conti pubblici, pongono con forza il tema dello sforamento del tetto del 3% relativo al rapporto deficit/PIL per ribaltare la logica che ha guidato finora le politiche di “risanamento”. Paese che vai, anti-austerity che trovi.
Pubblicato su Linkiesta il 27 luglio 2015.