di Etienne Balibar, Frieder Otto Wolf e Sandro Mezzadra
Gli “accordi” del 13 luglio a Bruxelles tra l’Unione europea e la Grecia segnano la fine di un’epoca? Sì, ma certamente non nel senso indicato dal comunicato conclusivo del “vertice”. In effetti gli “accordi” sono fondamentalmente inapplicabili e tuttavia costituiscono una forzatura altrettanto violenta, e ancor più conflittuale, di quanto è già avvenuto negli ultimi cinque anni. Si è parlato di diktat e questa drammatizzazione è basata su fatti concreti.
Le proposte con le quali Alexis Tsipras è arrivato a Bruxelles erano in contraddizione con il risultato del referendum, ma facevano ancora parte di un progetto sul quale aveva l’iniziativa per potere sperare di sviluppare una politica nell’interesse del suo popolo. I suoi “interlocutori” si sono impegnati a far fallire questo tentativo. Il risultato è un anti-piano senza alcuna razionalità economica, che assomiglia a un salasso e a un saccheggio dell’economia nazionale.
Peggio ancora, le misure di “messa sotto tutela” istituiscono un protettorato nell’Unione europea.
La Grecia non è più sovrana: non nel senso di una sovranità condivisa, che implicherebbe un progresso verso il federalismo europeo, ma nel senso di un assoggettamento al potere del Padrone. Di quale “Padrone” si tratta? Per descrivere il regime che governa oggi l’Europa, il filosofo tedesco Jürgen Habermas ha parlato di «federalismo esecutivo postdemocratico». Ma questo “esecutivo” è occulto e informale. La Commissione ha ceduto il potere all’Eurogruppo, che non dipende da alcun trattato e non obbedisce a nessuna legge. Il suo presidente si limita a essere il portavoce dello Stato più potente.
Questo significa che il nuovo regime non è altro che la maschera dell’imperialismo tedesco? L’egemonia è senz’altro reale, certo, ma è esposta a numerose contestazioni, tra cui quella della BCE. Prosciugando la liquidità di emergenza, la BCE ha svolto un ruolo determinante, “terroristico”, per piegare Atene. Questo non significa tuttavia che la concertazione tra Berlino e Francoforte funzioni sempre, né che gli interessi e le ideologie siano identiche. Questa divisione duratura nell’“esecutivo” europeo fa parte della sua costituzione materiale.
Come ne fanno parte le divergenze tra governo francese e tedesco. È importante capire ciò che li ha separati, senza naturalmente prendere per oro colato le loro giustificazioni. Per quanto riguarda i tedeschi, le ragioni politiche della loro “intransigenza” sono state più rilevanti di quelle economiche. I due schemi del Bundesfinanzministerium: uscita “provvisoria” della Grecia dall’euro, o espropriazione delle sue risorse nazionali, erano in fondo equivalenti, se si considera che l’obiettivo ultimo era (e resta) la caduta di Syriza.
Sul lato francese si era convinti che l’unica maniera per far passare l’aumento dell’austerità tra la popolazione greca era quella di scaricarlo su Syriza. Dopo tutto lo stesso Hollande ha una certa esperienza nel tradimento delle promesse elettorali… Ma la chiave è la preoccupazione evidenziata da Varoufakis: resistere al modo in cui la Germania si è servita della situazione greca per «disciplinare la Francia». Si può dire che, nella notte fatidica, Hollande abbia “vinto” sul mantenimento della Grecia nell’euro, ma abbia “perso” sulle sue condizioni. Quando si conoscerà il seguito di questa vicenda, è probabile che la sua vittoria non lo porterà lontano…
Queste trattative sulle spalle dei greci non hanno evidentemente risolto nessuno dei problemi che sono alla radice della crisi. Anzi, li hanno aggravati. Il debito europeo accumulato, quello pubblico e soprattutto quello privato, rimane incontrollabile. Volerlo fissare in Grecia non serve ad altro che a farlo aumentare, mantenendo l’insicurezza della moneta comune. Qualsiasi soluzione si scontra con un problema ancora più preoccupante per il futuro dell’Europa: l’aumento delle diseguaglianze e la loro trasformazione in rapporti di dominio. Un abisso si è allargato in un’“Unione” il cui progetto associava la riduzione delle inimicizie secolari con l’apertura di una prospettiva di prosperità e di complementarità tra i popoli.
Il 13 luglio ha evidenziato soprattutto la gravità del problema democratico in Europa, e della mancanza di legittimità che esso induce. Il più serio degli argomenti sollevati contro le richieste greche è quello che ha ribadito che la “volontà di un solo popolo” non può prevalere su quella degli altri. È incontestabile, ma non ha senso senza un contradditorio al quale tutti i cittadini europei siano invitati a partecipare insieme. La tecnostruttura e le classi politiche dei differenti paesi non vogliono nemmeno sentirne parlare. Il malessere e la collera generati da questo spostamento di potere verso le istituzioni sovranazionali e gli organismi occulti continueranno così ad aumentare.
In “compenso” si è messo in moto un dispositivo inquietante: i contribuenti dei diversi paesi sono stati martellati dall’idea che non smetteranno di “pagare per i greci” e che lo faranno di tasca loro. Questa propaganda genera un potente populismo “di centro” che alimenta le passioni xenofobe in tutto il continente. Sarà l’estrema destra a capitalizzarne i frutti.
In questa situazione, Syriza si trova di fronte a un dilemma terribile. Il memorandum è passato al Parlamento greco perché i vecchi partiti di governo hanno votato a favore, ma con una forte minoranza di oppositori, tra i quali ci sono una trentina di deputati di Syriza. Assumendosi le sue responsabilità, il primo ministro ha dichiarato di «non credere» nelle virtù del piano di Bruxelles, ma che bisognava accettarlo per evitare un «disastro». Ci sono già stati scioperi e manifestazioni. La crisi è aperta e continuerà.
Il principale appoggio “esterno” di cui dispone al momento Tsipras è giunto paradossalmente dal Fondo monetario internazionale. Pubblicando la sua analisi sull’insostenibilità del debito greco, chiedendo agli europei di “alleggerirli”», ha avviato una sorta di rinegoziazione strisciante. Ma Schäuble ha subito rilanciato l’idea di un “Grexit temporaneo”, che ha come posta la stessa appartenenza della Grecia all’Unione europea.
La situazione interna è quella determinante. Da anni, la società greca si è difesa contro l’impoverimento e la disperazione sviluppando straordinarie lotte e molteplici forme di solidarietà. Ora è esausta, divisa secondo linee che possono divergere brutalmente. Molto dipenderà dal modo in cui sarà percepita l’azione di governo: come “tradimento” o come “resistenza”. È fondamentale che Tsipras abbia perseverato nella decisione di dire la verità. Ha dovuto però fare un rimpasto di governo e annunciare la possibilità di elezioni anticipate, che si presentano come altamente rischiose. Soggetta a simili tensioni, Syriza resterà unita?
La spinta verso l’implosione viene dall’esterno, ma anche dai “marxisti” che hanno sempre visto nel Grexit un’occasione da cogliere. Pur legittima, ci sembra che la contestazione non dovrebbe portare a fare il gioco dell’avversario, pretendendo di monopolizzare la potenza espressa dal “No” del 5 luglio, che costituisce la forza del movimento. O l’unità tiene, e allora la dialettica tra attuazione dell’“accordo” e resistenza potrà svilupparsi in forme inedite, in cui un ruolo fondamentale dovrà essere svolto dalla mobilitazione sociale. Oppure cederà, seppellendo la speranza era nata in Grecia, in Europa e nel mondo.
Aggiungiamo solo un’ultima battuta. Tsipras lo ha detto chiaramente: la soluzione che abbiamo dovuto scegliere non era la migliore, è stata solo quella meno disastrosa per la Grecia e per l’Europa. Questo impegno al servizio dell’interesse comune ci assegna grandi responsabilità. Fino ad oggi, bisogna pur dirlo chiaramente, il nostro sostegno non è stato all’altezza della situazione. Ma la “lunga marcia” per l’Europa solidale e democratica non è finita il 13 luglio 2015. Continuerà anche in Grecia, mentre altri movimenti carichi di speranza ne prenderanno il testimone. L’unione fa la forza.
Una versione più ampia dell’articolo si può leggere nel sito di Open Democracy. Traduzione di Roberto Ciccarelli.