Venti anni fa, di questi tempi, l’America si stava preparando ad elezioni presidenziali praticamente senza storia. In campo democratico di fatto un solo candidato, Bill Clinton, che viaggiava tranquillo verso la rielezione un anno dopo, nel novembre del 1996, con le vele gonfie di quattro anni di crescita economica e di incontrastata supremazia globale dopo il collasso dell’impero del male nel 1991. Il campo repubblicano era riuscito a schierare alle primarie ben 11 candidati, per mandare alla fine a perdere l’anziano senatore del Kansas Bob Dole. Vent’anni dopo, lo scenario sembra identico: una sola locomotiva è diretta nella stazione democratica, almeno per ora, quella della moglie di Bill, Hillary, mentre i repubblicani hanno già battuto il record del 1995 con ben 16 candidature alle primarie. Tra tutte per ora spiccano quelle di Jeb Bush (sarebbe il terzo) e di Donald Trump (in una parte simile a quella recitata vent’anni prima da Ross Perot, che però si era presentato da indipendente). Cosa fosse in palio vent’anni fa era chiarissimo: la prosecuzione dell’era di prosperità e supremazia internazionale iniziata nel 1980 con la vittoria di Ronald Reagan su Jimmy Carter. Il solo problema era a chi affidare il timone, a un repubblicano poco collaudato anche se stagionato che si richiamava ai valori di Reagan, o a un democratico giovane ma collaudato che nei quattro anni precedenti aveva dimostrato di essere, molto più di Bush senior, il vero successore proprio di Reagan, un po’ come Tony Blair lo sarebbe stato della Thatcher in Gran Bretagna. Cosa sia in palio oggi è molto meno chiaro.
Dopo otto anni di W. Bush e altri otto di Obama l’America sembra in crisi d’identità. Crisi d’identità politica, dopo aver speso trilioni di dollari nelle guerre in Medio Oriente senza cavare un ragno dal buco. E crisi d’identità economica, dopo aver stampato altri trilioni di dollari per tenere in piedi il sistema finanziario mandato in tilt dal crac di Lehman Brothers. Obama sembra essere stato più il tentativo di farsi perdonare per il doppio disastro da parte di una classe dirigente ancora sostanzialmente conservatrice e molto legata a Wall Street che non il segno di una maturità politica e culturale ormai raggiunta e in grado di mandare un nero alla Casa Bianca. Se così non fosse ci sarebbe stato almeno il tentativo di una qualche continuità. E così in palio sembra esserci più che uno scontro sui contenuti piuttosto una guerra di successione tra due dinastie: quella dei Bush e dei petrolieri da una parte e quella dei Clinton ereditieri dei Kennedy, liberal ma amici di Wall Street dall’altra. In questa guerra di successione si è infilato Donald Trump, “the Donald”, l’archetipo scopiazzato in Italia da Briatore. Gli avversari del tycoon da 10 miliardi di dollari (ma Forbes dice che ne vale solo 4,1 – sempre miliardi) per ora sono quelli del suo campo. E c’è da capirlo, prima di andare allo scontro finale con Hillary deve farne fuori 15! Per ora gli attacchi ai compagni di partito, a cominciare dal povero John Mc Cain, stanno pagando, e i sondaggi lo indicano in testa tra i repubblicani. Trump cerca di rivendere il sogno americano, un usato davvero usurato e ormai poco sicuro. Ma è qualcosa che può avere un certo appeal rispetto alle colonne di fumo che per ora escono dagli accampamenti del giovane Bush e della non più giovane Hillary.
Come va a finire? Probabilmente i fuochi accesi dal Donald hanno già prodotto le loro fiamme più alte, e non sarà lui lo sfidante repubblicano. Giochi fatti in campo democratico? Ad oggi sembra proprio di sì. Per cambiare le carte in tavola ci vorrebbe una novità davvero grossa, un democratico convertito repubblicano, come Reagan nel 1980, o magari al contrario un repubblicano che diventa democratico. Come ad esempio l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, diventato repubblicano solo perché il campo democratico al tempo della sua elezione nella Grande Mela era troppo affollato. Che fra l’altro forse ostenta meno, ma vale molto, ma molto di più di the Donald. Secondo la classifica di Forbes del 2015 la bellezza di 35,5 miliardi di dollari. L’ultima cosa di cui l’America ha bisogno è una guerra di successione. Servirebbe una pacificazione invece, ma che può avvenire solo nel segno del Dna americano: frontiera, capitalismo, mercato. Possibilmente non alla Briatore.