di Tonino Bucci
C’è un grande assente in Europa. Se c’è, non si vede, perché è nelle seconde file, ben allineato e coperto. La voce della socialdemocrazia, nelle trattative dell’accordo tra Grecia ed Eurogruppo, non si è sentita. E, se in qualche caso, si è sentita, ha finito per accordarsi alle voci di Angela Merkel e Wolfgang Schäuble, gli autentici dominus della situazione.
I toni della SPD tedesca nei confronti del governo di Atene non sono mai stati morbidi, già prima del referendum greco. Se a contare fossero solo le esternazioni degli esponenti di massimo spicco non vi sarebbero dubbi sulla distanza dei socialdemocratici dalle sorti di Tsipras. Martin Schulz, il presidente del parlamento europeo, nonché tra i politici più in vista della socialdemocrazia tedesca, non ha mai riposto fiducia nell’esito della trattativa. «Dubito che il governo greco sia davvero interessato a un compromesso». Mai parole furono meno profetiche. Quasi con fastidio la SPD ha vissuto l’ascesa in Grecia di Tsipras. A cominciare dal presidente del partito Sigmar Gabriel: «Non lasceremo che a pagare per le promesse elettorali irrealistiche di un governo con i comunisti dentro siano i lavoratori tedeschi e le loro famiglie».
Esternazioni che, certo, non rappresentano gli umori di tutto il partito. Lo stesso Gabriel ha dovuto pagare pegno e ingoiare le critiche, soprattutto della sinistra interna. Ma a giudicare dalla posizione ufficiale, la SPD suscita l’impressione di voler assecondare gli umori prevalenti nell’elettorato tedesco, certo non propizi alla concessione di ulteriori crediti ad Atene. Probabile che in questa partita giochi un certo complesso d’inferiorità della SPD nei confronti del potente alleato di governo. Rispetto alla CDU di Angela Merkel i sondaggi parlano chiaro. Nonostante i socialdemocratici nell’azione di governo abbiano ottenuto delle concessioni, il loro credito nell’opinione pubblica non accenna a crescere. Per questi motivi, la vicenda greca è stata vissuta da Gabriel e compagni come un’occasione per attestarsi al centro (Partei der Mitte), rincorrere gli umori maggioritari del paese e strappare ad Angela Merkel il ruolo principale sulla scena. Una corsa verso il centro che, paradossalmente, ha spinto in diversi momenti il leader socialdemocratico a usare toni più radicali contro Atene di quelli utilizzati dalla più pragmatica e moderata Merkel. Indipendentemente dal fatto se la base socialdemocratica fosse o meno in linea con le invettive rivolte a Tsipras.
Evidente il distacco, se non la malcelata ostilità, del partito verso il governo greco, avvertito come distante da sé, come espressione di un atteggiamento populista, demagogico, in ultima istanza infantile, incapace di prendere atto della realtà e incline alla fuga da esso. Quello che i socialdemocratici hanno considerato fin dall’inizio come un governo di estremisti ha però, nella realtà dei fatti, perseguito per tutta la durata delle trattative obiettivi che un tempo, non tanto remoto, sarebbero stati considerati tipicamente socialdemocratici. Lo stesso Varoufakis, trattato oggi da esponenti della SPD alla stregua di un sovversivo, è in realtà niente di più di un keynesiano di sinistra che ben si sarebbe integrato a cavallo tra gli anni sessanta e settanta nelle schiere di Olof Palme e Willy Brandt, tanto per citare due icone della socialdemocrazia dei tempi andati.
In fondo Tsipras e compagni hanno vinto le elezioni al termine di un quinquennio durante il quale il paese è stato sottoposto a una cura da cavallo tale da uccidere il paziente e ridurlo sul lastrico. Il loro programma di voltare pagina rispetto alle politiche di austerità e far ripartire gli investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione, i redditi e la domanda interna sono a ben vedere obiettivi che si ispirano alla più classica della tradizione socialdemocratica.
Perché dunque questo distacco della socialdemocrazia? La SPD tedesca non solo non ha svolto alcun ruolo di mediazione tra le richieste greche e le posizioni più intransigenti – che poi hanno finito per prevalere e con l’infliggere alla Grecia le durissime condizioni che sappiamo – ma si è spinta, in più d’una occasione, fino a sostenere un’ortodossia delle regole in sintonia con le posizioni di Schäuble. Tra i più realisti del re va certamente annoverato il presidente del partito, Sigmar Gabriel, tra i primi e più solerti nel chiudere le porte alle trattative all’indomani del referendum greco. «E con questo tutti ponti sono stati distrutti» commentò un minuto dopo che fu confermata la vittoria del “no”. Un’affermazione improvvida e inopportuna a detta di alcuni compagni di partito. Ma soprattutto un inequivocabile segnale di appiattimento sulle posizioni di Schäuble, assieme al quale il leader socialdemocratico sembra propendere per un’uscita della Grecia dall’euro. Più di una dichiarazione, in realtà, ha lasciato intendere che Sigmar Gabriel fosse al corrente di un piano B del ministro delle Finanze tedesco per un Grexit, fosse anche temporaneo e limitato a cinque anni, e che lo condividesse anche. Tanto è bastato a far esplodere le critiche della sinistra interna e a indurre Gabriel a qualche correzione di rotta, fino a riaprire i margini della trattativa. Ma al di là che vi fosse o meno un’intesa segreta tra il leader socialdemocratico e il ministro delle Finanze per spingere la Grecia definitivamente fuori dall’euro, la SPD non ha mai abbandonato l’ortodossia delle regole, né preso le distanze da quella narrazione ufficiale dei “conti a posto prima di tutto” che costituisce il mainstream della CDU di Angela Merkel.
Resta la domanda fondamentale di come sia possibile per un partito come la SPD conciliare una tradizione politica fondata sui valori dell’uguaglianza con il dogma dell’austerità nelle politiche europee, contro il quale ha condotto, peraltro, l’ultima campagna elettorale. Come è possibile che i socialdemocratici reputino per buono un accordo che impone condizioni di rigore che nel proprio paese, in Germania, nessuno mai accetterebbe? L’aspetto più paradossale è che la SPD sostiene in Europa la linea dell’ortodossia delle regole ricorrendo proprio al valore dell’uguaglianza. La socialdemocrazia tedesca interpreta se stessa – notava pochi giorni Peter Schmid, giornalista ed ex direttore di Die Welt – come “il partito della piccola gente”, di quei ceti medi incerti sul proprio futuro economico e che si sentono messi a repentaglio dal costo del salvataggio greco sulle finanze tedesche. Uno strappo alle regole di austerità a favore dei paesi spendaccioni e corrotti del sud, riluttanti a qualsiasi riforma, sarebbe vissuta come iniqua rispetto a chi, come i tedeschi, le riforme le ha fatte e sopportate. Un argomento che la SPD, in nome dell’uguaglianza e della responsabilità di governo, ha finito per far proprio.
Tuttavia, la rincorsa verso il centro ha impedito ai socialdemocratici di fare da controcanto alle posizioni ultra-rigoriste della CDU e, anziché fare concorrenza al partito della Cancelliera, si sono adagiati nel ruolo di comprimari di Wolfgang Schäuble. La SPD rimane prigioniera del proprio calo di popolarità. I consensi sui quali al momento può contare non le permettono di impensierire minimamente il primato della CDU di Angela Merkel nell’opinione pubblica tedesca. I sondaggi più generosi non danno la SPD, oramai da tempo, oltre il 25-26%. Una soglia che la condanna al ruolo di comprimaria nel governo di grande coalizione. I problemi di consenso, a dirla tutta, non riguardano solo l’invisibilità dei socialdemocratici per quel che riguarda l’azione di governo e l’incapacità di incidere nell’opinione pubblica. I problemi affondano le radici nel passato. La SPD ha pagato a duro prezzo l’aver intrapreso all’epoca del governo Schröder una delle riforme più contestate e impopolari che la Germania degli ultimi anni abbia mai conosciuto, la cosiddetta “Agenda 2010”.
Scritta da un ex manager, Peter Hartz, la riforma ha ridotto la durata e l’entità del sussidio statale in caso di disoccupazione e istituzionalizzato i cosiddetti minijob, lavori a tempo determinato o part-time, defiscalizzati per le imprese e con retribuzioni non oltre i 480 euro mensili. A detta di molti analisti, l’Agenda 2010 avrebbe notevolmente ridotto il costo del lavoro in Germania. Sta di fatto che da allora la SPD ha subìto un calo drastico di voti, accompagnato dalla perdita di parte del proprio elettorato tradizionale, probabilmente a vantaggio della Linke, che nel frattempo ha consolidato la sua presenza alla sinistra dei socialdemocratici. Da allora, la SPD ha smarrito la sua vocazione di Volkspartei, di partito maggioritario. Lo spazio di manovrabilità politica si è ridotto. In questi anni la SPD è stata costretta ad un perenne pendolo tra il ruolo di opposizione al potere senza rivali di Angela Merkel e quello di comprimario di governo al fianco di quest’ultima. Né l’uno né l’altro, però, hanno portato i frutti attesi.
Nella passata legislatura, quando la Cancelliera governava assieme ai liberali dell’FDP, i socialdemocratici non hanno mai preso in considerazione l’ipotesi di costruire un polo di alternativa ad Angela Merkel assieme alle altre forze dell’opposizione. Troppo forti erano – e, in parte, lo sono ancora oggi – le resistenze all’interno della SPD a stringere rapporti di collaborazione con la Linke per poter pensare a una coalizione di governo rosso-rosso-verde in antitesi ad Angela Merkel. Una vecchia costante, questa, da un secolo a questa parte. Più volte nella storia tedesca le spaccature tra socialdemocratici e comunisti hanno condizionato le vicende del paese.
Già agli albori della Repubblica di Weimar i rapporti tra le due parti erano tesi. La scelta di votare i crediti di guerra e avallare il primo conflitto mondiale aveva già aperto una crisi interna al movimento operaio e ai partiti socialisti dei diversi paesi europei, compreso quello tedesco. L’ostilità tra le due componenti della sinistra tedesca toccò l’apice quando il ministro della difesa, il socialdemocratico Gustav Noske, non esitò a utilizzare i Freikorps, gruppi paramilitari ultranazionalisti, per reprimere il movimento comunista degli spartachisti e liquidare con l’omicidio i capi politici di questi ultimi, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. La frattura si è mantenuta con alti e bassi lungo tutta la storia tedesca e non si è mai sanata del tutto, neppure negli anni decisivi della crisi della Repubblica di Weimar e dell’ascesa del nazismo, quando socialdemocratici e comunisti non seppero costruire una collaborazione unitaria. La diffidenza è visibile ancora oggi. All’interno della SPD coesistono posizioni contrastanti riguardo ad un cambio di rotta del partito e una eventuale strategia di governo assieme alla Linke. Finora il rifiuto della dirigenza socialdemocratica di costruire una coalizione di sinistra-sinistra nel paese ha costretto la SPD a oscillare tra l’opposizione alla CDU e il governo assieme a quest’ultima. Aver mantenuto i piedi in due scarpe non ha giovato a Sigmar Gabriel e compagni. E, soprattutto, non ha restituito al loro partito i consensi persi per strada.