di Luigi Pandolfi
L’esito della “trattativa” tra Atene ed i suoi creditori lascia sul campo molti interrogativi. Sarebbe tuttavia sbagliato tentare di darne una lettura attingendo a categorie come quelle di “resa” o, peggio, di “tradimento”, riferendosi alla scelta difficile compiuta dal governo di Syriza. Le cose sono più complesse e rimandano direttamente al modello di costruzione europea che abbiamo davanti. Tsipras avrà potuto commettere anche degli errori, ma è innegabile che la radice del problema stia nella filosofia che ha ispirato finora il processo di integrazione. Una filosofia che poggia su due assiomi fondamentali: mercatismo e rigore. Attenzione però: sia per l’uno che per l’altro principio, valgono eccezioni e varianti. Nel primo caso la variante si chiama “neo-mercantilismo”, la tendenza a realizzare elevati surplus commerciali affidandosi al binomio esportazioni/compressione della domanda interna; nel secondo l’eccezione è data dall’espansività della politica monetaria per i salvataggi ed i rifinanziamenti bancari. In alter parole, rigore per i cittadini e liquidità senza limiti per il sistema bancario. Il tutto dentro uno cornice segnata da macroscopici squilibri regionali, tra centro (creditori) e periferia (debitori).
Syriza è cresciuta in questi anni nelle lotte, durissime, contro l’austerità e la deriva neoliberista dell’Europa. Non ha fatto mai mistero che considerasse la lotta del popolo greco, ben oltre il suo significato nazionale, come la retrovia naturale per l’assalto al potere tecnocratico di Bruxelles e di Francoforte. Idea condivisa da tutto il fronte anti-austerity europeo, che non a caso ha poi candidato Alexis Tsipras alla presidenza della Commissione. Se questo era il profilo della forza politica alla quale il 25 gennaio scorso il popolo greco consegnava la vittoria, che tipo di atteggiamento ci si sarebbe dovuto aspettare dalle altre cancellerie europee e dalle strutture di potere tecnico-finanziario dell’Unione? La risposta a questo interrogativo possiamo retrodatarla al 4 febbraio scorso, giorno in cui il Consiglio direttivo della BCE ha deciso di non accettare più i titoli di Stato ellenici quale garanzia per l’erogazione di liquidità alle banche, negando in questo modo alle stesse la possibilità di finanziarsi a tasso agevolato al pari di tutti gli altri paesi europei.
Inizia in questo modo l’accerchiamento finanziario del sistema bancario ellenico, poi diventato strangolamento vero e proprio, ad opera della BCE, con la chiusura dei rubinetti per gli istituti di credito ed il dosaggio “politico” della liquidità d’emergenza. Ciò, con l’obiettivo di portare il popolo all’esasperazione e determinare la caduta del nuovo esecutivo. Era chiaro fin dall’inizio, insomma, che i cosiddetti “creditori” puntassero in primo luogo alla defenestrazione di Alexis Tsipras, poi, ma solo in subordine, ad un accordo all’insegna della continuità con la filosofia dei precedenti memorandum. Questa eventualità è stata sventata dal referendum del 5 luglio, quando il popolo greco, a stragrande maggioranza, e nonostante le banche chiuse, si è stretto intorno al governo guidato da Alexis Tsipras.
Quello che è accaduto immediatamente dopo era per certi versi prevedibile, ma non nei termini in cui si è effettivamente appalesato. Nessuno, men che meno Tsipras, poteva sperare in un intenerimento delle cosiddette “istituzioni”, ma la rigidità, lo spirito punitivo che ha informato il comportamento della Germania e dei suoi alleati sono andati ben al di là del “ragionevole” disappunto, finendo per mettere una pesante ipoteca sul futuro stesso dell’Europa. Atene ha subito un’umiliazione, non c’è dubbio, ma il “progetto europeo” ne è uscito con le ossa rotte.
C’erano alternative per Tsipras ed il suo governo? In linea teorica sì. Il Grexit era senz’altro nella “disponibilità” di Atene, meno in quella dei suoi creditori. Pur non essendo prevista dai trattati l’uscita dall’unione monetaria ma solo dall’Unione europea – in base all’Articolo 50 del Trattato sul funzionamento dell’UE – è chiaro che sarebbe tecnicamente possibile per un paese sfilarsi unilateralmente dall’eurozona, mentre è molto più improbabile, difficile, che dalla stessa si possa essere “espulsi”. A pensarci bene, sarebbe stato un bel grattacapo per Schäuble trovare il modo per cacciare la Grecia dall’eurozona, se è vero che il Trattato sul funzionamento dell’UE è stato firmato e ratificato da tutti i partner in regime di parità. Né a tal fine potevano valere eccezioni sul rispetto delle regole di finanza pubblica, che, come è noto, tutti i paesi membri, Germania compresa, hanno finora applicato con molta “flessibilità”. Diverso è il discorso del dosaggio della liquidità per le banche e quello relativo al regime di assistenza allo Stato ellenico per restare in condizione di “solvibilità” riguardo al suo debito pubblico. Il metodo seguito dalla BCE rispetto al “caso greco” ha dimostrato che in questa Europa sbilenca l’autorità monetaria centrale può, in maniera più o meno arbitraria, usare il suo potere “indipendente” per tenere sotto ricatto gli Stati ed il loro sistema bancario. Ne è prova, per converso, la decisione di Draghi di riaprire i canali della liquidità per le banche elleniche sulla base della semplice “fiducia” verso il governo greco, ventiquattr’ore dopo il primo voto in parlamento sulle cosiddette “riforme”.
Non c’è dubbio, in questo quadro, che un rifiuto da parte di Atene delle proposte dei creditori avrebbe avuto come effetto immediato la certificazione formale del default dello Stato ed il collasso definitivo del suo sistema bancario, con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare. Bisognava predisporre un piano B? L’unico piano B era l’uscita dall’euro, una strada in teoria percorribile – la storia abbonda di rotture di unioni monetarie e di cambi di moneta –, che però richiedeva, a monte, una certa preparazione, un adeguato know-how, come lo stesso Yanis Varoufakis ha riconosciuto in una recente intervista. Evidentemente il paese non era pronto per una simile eventualità, né il governo e Syriza l’hanno mai seriamente presa in considerazione, per le conseguenze economiche che avrebbe avuto, ma anche per il significato simbolico che avrebbe assunto. Di contro, i greci saranno chiamati a fare i conti con l’attuazione di un Memorandum, che, nelle linee essenziali, ripropone lo stesso schema dei precedenti. Ci vuole poco a capire che l’imposizione di nuove misure di austerità in un paese in ginocchio come la Grecia, ritornato in recessione dopo i timidi segnali di ripresa dell’anno scorso, non potrà che avere effetti depressivi sull’economia e minare definitivamente la sostenibilità del debito. Il rischio di una spirale austerità-recessione-debito c’è tutto, insomma. È quello che, paradossalmente, sostiene il Fondo monetario internazionale, ricordando che quelle “riforme” sono una follia senza un taglio vigoroso del valore nominale del debito ovvero senza una moratoria almeno trentennale sul rimborso del capitale e degli interessi.
Beninteso, tra le righe del Memorandum ci sono anche obiettivi condivisibili, come lo stesso Tsipras ha più volte sottolineato. Il problema non è, tuttavia, sottrarre l’ufficio centrale di statistica al controllo della politica o far pagare le tasse a chi non le ha mai pagate, ma riconoscere che Atene non è più nelle condizioni di chiedere sacrifici ai suoi cittadini sull’altare dei “saldi primari”. Al punto in cui la Grecia si trova si dovrebbe parlare di “ricostruzione” del paese, di investimenti per sostenere la crescita e rilanciare l’occupazione, di misure urgenti per la lotta alla povertà e per rimettere in piedi la sanità pubblica. Obiettivi che fanno a pugni con quelli di finanza pubblica inseriti nell’accordo e con i meccanismi di correzione automatica previsti per il loro effettivo raggiungimento. Nel suo discorso dinanzi al parlamento, Tsipras ha dimostrato di essere consapevole di tutto ciò, rivendicando però il merito di essersi battuto fino all’ultimo istante per evitare al suo popolo condizioni ben peggiori. Credo che gliene vada dato atto. Così come gli va dato atto, a lui ed al suo governo, di aver finalmente sdoganato la questione del debito, su cui d’ora in avanti sarà molto più difficile mostrare indifferenza.
In ogni caso, proprio le condizioni dell’accordo ripropongono il tema della “riformabilità” (o meno) dell’attuale governance euro-monetaria. Stante l’attuale architettura dell’Unione, e dell’euro, un diverso atteggiamento della Germania e dei suoi alleati, pur auspicabile, si sarebbe configurato comunque come un atto di “liberalità” nei confronti della Grecia, in deroga, paradossalmente, alla disciplina dei trattati vigenti. Non dimentichiamo che alla base della governance comunitaria c’è il fiscal compact, non certo il mutualismo e la solidarietà tra gli Stati. Qual è il ruolo della BCE? Cos’è il fondo salva-Stati (ESM)? Cosa dice il Patto di bilancio europeo? È previsto un meccanismo di aggiustamento delle bilance commerciali? Rispondendo a queste e ad altre domande similari, si trovano alcune chiavi lettura di quello che è accaduto alla Grecia e ad altri paesi europei in questi anni. C’è una questione greca, quindi, ma soprattutto c’è una gigantesca questione europea. La partita è appena cominciata.