di Thomas Fazi
L’inchiostro sull’accordo Grecia-UE non si era ancora asciugato che già si levavano a gran voce dai salotti virtuali della sinistra accuse di «tradimento» e di «capitolazione» nei confronti di Tsipras. Senza entrare nel merito di queste infelici categorie semantiche, sono fondate queste accuse? E siamo veramente di fronte alla sconfitta totale ed assoluta di Syriza, come sembrano sostenere (quasi) tutti?
Partiamo dall’accordo in sé. È indubbio che si tratti di un accordo economicamente e politicamente pessimo che – se applicato alla lettera – difficilmente permetterà all’economia greca di risollevarsi. Ma c’è anche da dire che è con ogni probabilità il miglior accordo che la Grecia potesse ottenere rimanendo all’interno dell’unione monetaria. È opportuno ricordare che Tsipras e i suoi hanno negoziato e lottato per mesi in condizioni politiche e psicologiche durissime – il Guardian ha scritto che Tsipras è stato sottoposto «un massiccio waterboarding mentale» nella maratona del Consiglio europeo terminato lunedì mattina – che avrebbero portato molti di quelli che ora accusano Tsipras di debolezza (o peggio) a “cedere” molto prima. Come ha scritto l’economista Joseph Halevi su Facebook, con parole ben più dure di quelle che riporto qui:
È possibile pensare a qualche elemento della sinistra italiana chiuso in una saletta per 17 ore con 18 capito di governo o di Stato che si avventano contro di lui come mastini rabbiosi? No: il tutto si sarebbe concluso in 20 minuti e con qualche frullato di parole da parte del diretto interessato.
E c’è da dire che Tsipras ha veramente lottato fino all’ultimo, riuscendo ad ottenere, rispetto alla proposta iniziale dei creditori: 1) la permanenza del fondo fiduciario in Grecia piuttosto che nel Lussemburgo, come voleva Schäuble; 2) un coinvolgimento più light del Fondo monetario internazionale; e, cosa più importante, 3) la ristrutturazione del debito (su basi da definire), che prima del referendum – a proposito della presunta “inutilità” del voto del 5 luglio – non era neanche sul tavolo della trattativa.
In definitiva, se questo è il migliore accordo che Tsipras è riuscito ad ottenere vuol dire che questo era con ogni probabilità il migliore accordo che si potesse ottenere. Soprattutto se consideriamo che la minaccia del Grexit come arma negoziale, se anche i greci avessero scelto di farvi ricorso, era spuntata da quando la controparte ha detto chiaramente di essere pronta a cacciare la Grecia dall’eurozona (e non c’è motivo di credere che stesse bleffando).
L’unica alternativa che rimaneva alla Grecia, dunque, era quella dell’uscita vera e propria; l’idea, suggerita anche dallo stesso Varoufakis, che esistesse una “terza via” in cui la Grecia emetteva una moneta parallela rimanendo però nell’eurozona è poco convincente, a nostro avviso, e non avrebbe fatto altro che preparare il terreno ad un’uscita vera e propria. La scelta, nei fatti, era tra permanenza nell’euro o ritorno ad una valuta nazionale, e Tsipras, molto semplicemente, ha valutato che non sussistessero le condizioni né interne (ancora oggi in Grecia, nonostante la vittoria dell’oxi, la maggioranza della popolazione è contraria ad un’uscita, come dimostra il fatto che non ci sono state proteste oceaniche contro il governo alla firma dell’accordo) né internazionali (nessun impegno finanziario concreto da parte di Russia, Cina, Stati Uniti, ecc.) per un’uscita. Alla luce di ciò, è perfettamente comprensibile che Tsipras non se la sia sentita di premere il grilletto. Anche perché la tempia non era la sua ma quella del suo popolo. Ha ragione il giornalista e artista greco Alex Andreou quando scrive:
È rivelatore del panorama politico europeo – anzi, mondiale – che i sogni di socialismo di ognuno sembravano poggiare sulle spalle del giovane primo ministro di un piccolo paese. Sembrava che ci fosse una fervente, irrazionale, quasi evangelica credenza, che un piccolo paese, affogato nei debiti e a corto di liquidità, avrebbe in qualche modo (e quel qualche modo non viene mai specificato) sconfitto il capitalismo globale, armato solo di bastoni e pietre. Quando sembrava che ciò non sarebbe accaduto, gli si sono rivoltati contro… Come è facile essere ideologicamente puri quando non si sta rischiando nulla. Quando non devi fronteggiare la mancanza di beni, il collasso della coesione sociale, il conflitto civile, la vita e la morte. Come è facile chiedere un accordo che evidentemente non sarebbe stato accettato da nessuno degli altri Stati membri della zona euro. Quanto è facile prendere decisioni coraggiose quando non si mette in gioco la propria pelle, quando non devi farei conti con il conto alla rovescia, come succede a me, delle ultime ventiquattro dosi del farmaco che impedisce a vostra madre di avere crisi epilettiche.
Il punto è che le ragioni che rendevano un’uscita unilaterale e disordinata della Grecia dall’euro una prospettiva non auspicabile fino all’altro ieri permangono ancora oggi. Per quanto pessimo sia l’accordo siglato con la troika e per quanto feroce sia stato il trattamento riservato alla Grecia, infatti, dovremmo stare molto attenti a non cadere nella fallacia, ampiamente smentita dalla storia, secondo cui «tanto peggio di così non può andare».
In sostanza, è innegabile che da un certo punto in vista – in primis quella della fine dell’austerità promessa da Tsipras in campagna elettorale – l’esito della trattativa, per la Grecia e per Syriza, rappresenti una sconfitta (anche se sarebbe sbagliato pensare che l’accordo sia in assoluto l’esito peggiore possibile della vicenda greca e che un’uscita sarebbe stata comunque meglio; e comunque bisogna tenere a mente che la partita interna di Tsipras è appena iniziata). Ma possiamo dire lo stesso dell’esperienza complessiva di Syriza, che al governo di un paese politicamente ed economicamente debolissimo e completamente isolato ha avuto il coraggio di lanciare una sfida diretta all’oligarchia politico-finanziaria europea, a cui fanno capo alcuni delle istituzioni e degli Stati più potenti al mondo? E che è persino riuscito a resistere all’esplicito tentativo di destabilizzazione e di regime change – o colpo di Stato finanziario che dir si voglia – messo in atto della BCE?
A prescindere da come finirà questa esperienza – e a tal proposito ricordiamo a tutti i disfattisti che «siamo solo al giorno zero» di una guerra che è appena iniziata, come giustamente ricorda Alessandro Gilioli – a Syriza andrà comunque il merito di aver mostrato al mondo la vera faccia di questa Europa e soprattutto di questa Germania (prima di tutta questa storia sarebbe stato impensabile immaginare di vedere sulle pagine di Repubblica un titolo come “La vera tragedia europea è la Germania”), di aver evidenziato l’incompatibilità tra la democrazia e questa UE, di aver palesato la natura squisitamente politica e tutt’altro che indipendente della BCE, di aver dimostrato che questa UE è solo un «protettorato in maschera», come scrive Lucio Caracciolo, di aver rimesso al centro del dibattito pubblico la questione della necessità di ristrutturare i debiti pubblici, di aver dato vita a un movimento di solidarietà paneuropeo senza precedenti, ecc. La lista è lunga.
Il punto è che Tsipras ha tracciato un solco profondo nella storia europea, tanto che possiamo tranquillamente parlare di un pre- e di un post-Syriza. Come recitava la scritta su sfondo nero che mercoledì 12 luglio ha fatto il giro dei social network di tutto il mondo, lanciando l’hashtag #ThisIsaCoup: «Dopo di oggi l’Europa non sarà mai più la stessa». È proprio così. Resta ovviamente da vedere quale sarà l’eredità di Syriza: se saranno le forze progressiste o quelle reazionarie a raccogliere i frutti dell’esperienza– e della lezione – greca. Ma quello dipende da tutti noi.
Syriza ha fatto tutto quello che ha potuto alla luce degli attuali rapporti di forza. La responsabilità della modifica dei rapporti di forza in Europa adesso sta sulle spalle degli italiani, dei francesi, dei tedeschi, degli spagnoli, di tutti noi.
C’è chi sostiene che la sconfitta greca sia il segno evidente dell’irriformabilità dell’Unione europea e in particolare dell’unione monetaria o del fatto che «l’unica strada possibile per la sinistra è fuori dall’euro». A noi pare invece che la “lezione” di Syriza sia un’altra, ossia che questa Europa si fonda su un’unica logica: quella brutale ed autoritaria dei rapporti di forza. Rapporti di forza – si badi bene – che ovviamente non si esprimono solo attraverso la moneta unica o il sistema di governance dell’eurozona. Chi crede, infatti, che un’uscita dall’eurozona sia sufficiente a salvaguardare un paese dalla ferocia dell’oligarchia europea ed internazionale si sbaglia di grosso; a tal proposito basterebbe ricordare l’esperienza del governo socialista di Mitterand, eletto in Francia nel 1981 sulla base di una ambizioso programma di riforma economica e redistribuzione sociale e costretto in pochi anni a fare marcia indietro – o meglio inversione a U – dopo una serie di violenti attacchi speculativi.
Non è difficile capire che per l’establishment è cruciale dimostrare che non può esistere alternativa al neoliberismo e alla post-democrazia né dentro l’euro né fuori da esso. In queste senso, ben venga il dibattitto e la riflessione sulla riformabilità o meno dell’UE o sui meriti o meno di una fuoriuscita dall’euro, ma nella consapevolezza che l’esito di queste dotte disquisizioni non influisce minimamente sui rapporti di forza esistenti e che non è certo sulla radicalità (reale o apparente) degli obiettivi che uno si dà che si misura la capacità di un movimento di “fabbricare” consenso. La domanda centrale a cui è chiamata a rispondere la sinistra europea oggi, dunque, non è tanto se l’Europa o l’euro siano riformabili o meno – riflessioni stimolanti dal punto di vista teorico ma del tutto velleitarie dal punto di vista politico –, ma piuttosto come trasformare i rapporti di forza all’interno dei paesi e tra questi. Per non lasciare i greci da soli.