Roma – Il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, in visita a Belgrado, l’altro ieri auspicava l’apertura entro l’anno dei capitoli negoziali per l’adesione serba all’Ue, dichiarando che il Paese “ha un ruolo chiave nei Balcani” per “costruire ponti e instaurare valori comuni”. Uno di questi ponti è certamente verso la Russia, che varrebbe la distensione dei rapporti tra Mosca e Bruxelles. E’ uno dei motivi per i quali si dovrebbe spingere sull’acceleratore per portare l’ex capitale jugoslava nell’Unione. La pensa così Franco Frattini, ex commissario europeo e vice presidente della Commissione, a lungo ministro degli Esteri, attualmente presidente della Società italiana per l’organizzazione internazionale e consigliere di Belgrado per l’adesione all’Ue. In questa sua seconda veste è rientrato appena due giorni fa da una serie di incontri con le autorità serbe per fare il punto sul percorso di integrazione europea. Eunews lo ha incontrato per approfondire le motivazioni dell’ingresso serbo e conoscere gli ultimi aggiornamenti sullo stato dei lavori.
Eunews: Presidente Frattini, partiamo dal perché sia così strategico far entrare la Serbia nell’Ue.
Frattini: Due fattori rendono questa possibilità una necessità per l’Unione europea. Il primo è che si tratta del più grande e prospero Paese della regione balcanica, un fattore di sicurezza e stabilità regionale che l’Europa non può permettersi di lasciare ai margini. Tanto più che confina con diversi Stati membri (Croazia, Ungheria, Romania e Bulgaria), quindi si creerebbe una enclave di frustrazione e instabilità molto pericolosa per gli interessi europei.
E.:Il secondo fattore?
F.: La Serbia è area di integrazione per i mercati e per lo sviluppo delle infrastrutture. I corridoi orientali, quelli individuati nel programma Ten-T (Rete di trasporti transeuropea), vedono nella Serbia un paese di transito indispensabile. A questo, sempre per l’economia, aggiungiamo che Belgrado guarda a due macroregioni europee di interesse fondamentale: quella danubiana e quella adriatico-ionica. Riassumendo: c’è una ragione di tipo geostrategico riguardante sicurezza e stabilità, e un’altra riguardante infrastrutture ed economia.
E.: La Serbia ha storicamente un’amicizia forte con la Russia. Che effetto può avere l’accelerazione del suo ingresso nell’Ue sulle già difficili relazioni tra l’Europa e il Cremlino?
F.: Questo è un terzo fattore che aggiungerei ai precedenti sull’importanza dell’adesione serba all’Unione. La Serbia può svolgere un ruolo di ponte tra l’Europa e la Russia, con cui ha rapporti storici di amicizia che il premier, Aleksandar Vučić, molto giustamente non vuole rallentare. Sottolineo: molto giustamente. L’errore più grande sarebbe dire alla Serbia che deve fare già ora quello che facciamo noi, quando poi entrerà tra sei o sette anni. Su questo, Vučić ha risposto chiaramente all’Alto rappresentante Ue (Federica Mogherini): “quando noi saremo nell’Unione europea voteremo come Paese dell’Ue, ma non potete chiederci una prova d’amore adesso e poi farci entrare tra sei o sette anni”. Ha pienamente ragione.
E.: Non lo si può chiedere a Belgrado e aumenterebbe gli attriti con Mosca. Non trova?
F.: Sì. Uno degli errori che ha portato al disastro con l’Ucraina, al di-sas-tro, è stato porre Kiev davanti alla scelta: firmare l’accordo di associazione con l’Europa o rimanere amica della Russia. Se si fosse detto, come sempre si era fatto, che l’Ucraina poteva ben firmare l’accordo con l’Ue rimanendo un Paese storicamente legato alla Russia, oggi non avremmo il disastro che abbiamo. Cerchiamo di non ripetere questo errore con la Serbia.
E.: Dopo il viaggio a Belgrado che ha appena concluso, vuol raccontarci a che punto è il lavoro sui capitoli negoziali per l’adesione?
F.: Credo che siamo pronti per l’apertura di più capitoli. A ottobre ci sarà un rapporto della Commissione europea e mi auguro suggerisca l’apertura non solo del capitolo 35 – quello della normalizzazione con il Kosovo – come chiede soprattutto la Germania. Credo che altri capitoli siano più maturi, come il 32 sulla trasparenza finanziaria, e che entro l’anno, magari in una seconda fase che può partire a dicembre, saranno maturi anche il 23 e 24 che riguardano giustizia, affari interni e diritti fondamentali. Questa sarebbe una prospettiva di compromesso che alla fine accontenta tutti. Si possono aprire contemporaneamente più capitoli, con la certezza però che il capitolo 35 rimarrà aperto fino alla chiusura di tutti gli altri.
E.: Quali sono invece gli aspetti più semplici e quelli più problematici del negoziato?
Le questioni più semplici, negli ‘action plan’ già esaminati con buoni risultati a Bruxelles, sono l’organizzazione giudiziaria, già ampiamente riformata, e le riforme sul piano della lotta al crimine organizzato. Il ministro della Giustizia sta presentando in Parlamento un pacchetto che modifica il codice penale introducendo i reati di criminalità economica e finanziaria. Inoltre, sono già state introdotte norme antiterrorismo molto aggiornate. I temi più complessi riguardano il capitolo ‘minority rights’, sui diritti in giudizio per le minoranze. In Serbia ci sono ungheresi, bulgari, romeni. Molti hanno già il diritto, come in Italia i tirolesi, di andare a giudizio parlando la propria lingua. Manca ancora per alcune minoranze più piccole, come quella romena. L’altro aspetto sollevato da Bruxelles riguarda la libertà di stampa e informazione, tema affrontato in due capitoli: il 10 sui media e il 23 sui diritti fondamentali. Proprio ieri il capo negoziatore per l’adesione all’Ue, Tanja Miščević, mi diceva che combinando i due capitoli introdurranno un pacchetto di misure che venga incontro alle attese europee.
E.: I sassi contro Vučić a Srebrenica mostrano che le ferite delle guerre balcaniche sono ancora aperte. Come sanarle e riconciliare il popolo serbo con le altre popolazioni dell’ex Jugoslavia?
F.: Il partito del premier Vučić e del presidente Tomislav Nikolić, che nasce come un partito nazionalista, è quello che ha avviato con più forza la normalizzazione con il Kosovo. Questo dimostra che la leadership politica di Vučić sta pagando. Proprio all’indomani dell’attacco –indecente, perché si è violato da parte di mussulmani il principio caro all’Islam per cui l’ospite è sacro – ha compiuto un gesto politico straordinariamente importante: l’invito ai tre presidenti di Bosnia Erzegovina, che la settimana prossima saranno nella capitale serba. È un gesto di distensione importante. Penso che il futuro della regione non lo dovranno giocare le potenze straniere. L’Europa avrà un effetto di calamita, ma la stabilizzazione per superare cose come questa la devono giocare le leadership territoriali. È questo l’unico antidoto contro il nazionalismo.
E.: La Serbia ha un altro problema con i suoi vicini: la decisione ungherese di costruire un muro al confine tra i due paesi. Come è vissuta a Belgrado?
F.: È un problema che lì vivono in maniera meno drammatica che a Bruxelles. Credo che l’Ungheria abbia voluto dare un segnale molto forte rispetto al problema del flusso di immigrati. Come noi ci siamo lamentati – ma muri non ne possiamo fare perché abbiamo il mare – l’Ungheria invece fa il muro. È lo stesso segnale. Budapest ha voluto lanciarlo in modi diversi, forse un po’ troppo forti, ma è un segnale verso il disinteresse a seguire in modo veramente europeo i problemi dei paesi di confine. La Serbia comunque ha fatto una cosa importante. Avevo suggerito al ministro degli Interni, ad aprile, di promuovere i pattugliamenti congiunti alla frontiera. Mi hanno detto ieri che sono già iniziati con successo. È una collaborazione che purtroppo non è europea ma è bilaterale. Il pattugliamento ai confini lo dovrebbe prendere in carico Frontex. Quando io creai l’agenzia l’obiettivo era questo: fare una guardia di frontiera europea integrata, con le divise e con la bandierina europea sulle divise. Alcuni paesi non hanno voluto farlo e ancora non c’è.
E.: Tra i candidati all’ingresso nell’Ue – Albania, Macedonia, Montenegro, Serbia e Turchia – qual è quello con le più rapide prospettive di adesione?
F.: Quello che corre di più è sicuramente il Montenegro, che ha già aperto 18 capitoli negoziali. Ma questo si spiega col fatto che è un paese più piccolo, ha un impatto geostrategico minore e quindi le riforme, in un paese come il Montenegro, riguardano meno di un milione di persone, è ben più facile. Il Montenegro è ben determinato. Mi auguro entri nella Nato già quest’anno, perché se lo merita, e che faccia progressi in tutti e 18 i capitoli negoziali. Però non c’è dubbio che l’avanzamento della Serbia è un fattore di stabilità per l’intera regione. E poi, se uno guarda all’esercito serbo, all’intelligence serba al ruolo della polizia serba, vede un paese robusto.