Dopo sette anni di crisi, cinque di negoziati sulla Grecia, l’Europa è messa in croce. Errori del passato e del presente hanno infilato l’Unione in un cul de sac dal quale è obiettivamente difficile venire fuori a questo punto. Alcuni creditori, la Germania, la Finlandia dicono di aver perso ogni fiducia nella Grecia che ha fatto pochissimi passi avanti sul fronte delle riforme. Ma la stessa cosa la dicono i greci a proposito dei creditori, che in cinque anni non sono riusciti a mettere a punto un piano diverso da quello dell’austerità, miseramente fallito sia con i governi socialisti, che popolari e per ora anche con quello di sinistra.
La frattura riguarda oramai anche i grandi Paesi, che sono schierati, evidentemente su fronti diversi: Germani, Spagna e Polonia tra i falchi, Francia, Italia e anche Gran Bretagna (fuori dall’euro ma grande piazza finanziaria) tra le colombe, se è possibile fare una distinzione così, senza i toni del grigio, e per tacer dei “piccoli”. A questo punto spingere per una Grexit vuol dire lavorare contro la Parigi, Roma e Londra, e questo è un elemento a favore di Atene: una sua uscita spaccherebbe l’Europa politica prima ancora che monetaria, e i risultati sarebbero probabilmente ingestibili da parte di una classe politica che, mediamente, si è mostrata così modesta.
E’ vero, la Grecia in questi anni non ha mostrato di saper reagire istituzionalmente in maniera vigorosa alla crisi, non ha fatto ancora molto per riformare il suo sbrindellato sistema amministrativo e politico. Il governo di Alexis Tsipras ha messo insieme qualche modesto intervento soprattutto per recuperare qualche soldo dall’evasione fiscale (hanno firmato un accordo con la Svizzera in questo senso), ma insomma, grandi novità non si sono ancora viste. E’ anche vero che governa da meno di sei mesi e che un po’ di tempo è necessario. E’ anche vero che il referendum che, a quanto si dice a Bruxelles, ha improvvisamente rotto un tavolo che sembrava procedere ha fatto arrabbiare molti, ma scossoni come questi in un negoziato sono normali.
Però dire che manca la “fiducia” è una mossa politicamente ingiusta, perché dimostra che si preferirebbe un governo diverso (come se quelli prima di Tsipas avessero portato a casa qualche risultato significativo), e perché alimenta le tensioni tra i cittadini europei. In questo momento i leader europei dovrebbero fare di tutto per tenere insieme i cittadini e il progetto europeo, non surriscaldare gli animi e favorire le tensioni. In questo momento i leader europei dovrebbero pretendere da Atene un immediato e dettagliato piano calendarizzato delle riforme che intende fare, e Tsipras ci si deve impegnare. L’obiettivo deve essere salvare la moneta unica dimostrandone la forza e la capacità di reazione, per il bene di tutti i cittadini. Se domani le Borse europee dovessero crollare, gli spread salire, con loro salirebbero i tassi dei mutui, diminuirebbero gli investimenti pubblici, si metterebbero in difficoltà i sistemi pensionistici. Si farebbe il male dei cittadini europei sul piano economico e ancor più morale. Si alimenterebbero le tensioni, i cittadini di Sud e Nord, ma anche di Est e Sud, di Ovest e Centro avrebbero tanti nuovi motivi per maledirsi, come fanno ora tanti tedeschi nei confronti dei greci e viceversa.
Ci vuole ora un sussulto neanche di dignità o di visione strategica, ma di semplice realismo, con il quale ad esempio ci si renda conto che se salvare la Grecia e con lei la moneta unica è molto più importante che mettere a rischio la coalizione di governo finlandese. Il populismo non lo si ferma con atti populisti, ma con durature soluzioni ai problemi: come si dice, un vero statista non guarda alle prossime elezioni, ma al mondo che consegnerà ai suoi figli.