di Mark Blyth
Quando Syriza è salita al potere, nel gennaio del 2015, Cornel Ban ed io abbiamo scritto che a un certo punto era inevitabile che emergesse in Europa un Alexis Tsipras «perché non puoi continuare a chiedere alla gente di accettare peggiori condizioni di vita oggi in cambio di un futuro migliore che non arriva mai». Nonostante i continui tentativi dell’Eurogruppo, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale di imporre alla Grecia, da febbraio ad oggi, misure di austerità ancora più dure di quelle perseguite finora, nel referendum del 5 luglio i greci hanno votato a larghissima maggioranza affinché il governo dica ancora una volta “no” alle richieste della troika. E ora? Per rispondere a quella domanda dobbiamo prima fare chiarezza sulle origini della crisi.
Tanto per cominciare, va detto chiaramente che la Grecia c’entra ben poco con la crisi che porta il suo nome. Essa affonda le sue radici nell’architettura del sistema finanziario europeo. Con l’introduzione dell’euro, nel 1999, non sono solo crollati gli spread della Grecia (tanto per i privati quanto per il governo), ma le banche di tutti i paesi dell’unione monetaria hanno avuto accesso a quella che di fatto era una valuta estera a bassissimo costo. A fronte di tassi di interesse ultra-bassi e delle varie bolle creditizie che cominciavano ad apparire in vari paesi dell’unione monetaria, è normale che le banche nazionali abbiano cominciato ad estendere le loro attività in lungo e in largo.
Questo è il motivo per cui gli attivi delle banche europee sono esplosi nella prima decade dell’euro, in particolar modo nei paesi della periferia. Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, allo scoppio della crisi europea, nel 2010, i crediti inesigibili detenuti nella periferia dalle banche francesi e tedesche ammontavano rispettivamente a 465 e 495 miliardi di euro. Solo una piccolissima parte di quelle attività deteriorate era situata in Grecia. E qui sta l’assurdità di tutta questa vicenda: nel 2010 la Grecia rappresentava il 2% del PIL dell’unione monetaria, mentre il disavanzo pubblico greco ammontava al 15% del PIL del paese, pari allo 0,3% del prodotto interno dell’eurozona. Di per sé non rappresentava di certo una minaccia per l’economia europea. Il problema è che i detentori del debito greco – le grandi banche del centro – nel corso del decennio precedente avevano fatto lievitare i loro bilanci di là di ogni limite. In totale, nel 2010, gli attivi delle banche europee ammontavano al doppio degli attivi delle loro controparti statunitensi. In questa situazione di indebitamento estremo, se la Grecia avesse fatto default, quelle banche avrebbero dovuto liberarsi di un buon numero di titoli sovrani per sanare le perdite. Questo avrebbe scatenato un sell-off sui titoli sovrani che avrebbe rischiato di spazzare via alcuni dei più grandi istituti bancari del continente.
Il “programma di salvataggio” della Grecia è servito proprio ad evitare questo scenario: tenendo la Grecia nell’euro e calmierando i tassi greci, si è evitato il sell-off sui titoli sovrani, ma a costo di far salire la disoccupazione greca alle stelle e di distruggere un terzo dell’economia ellenica. Di conseguenza, oggi la Grecia rappresenta solo l’1,7% dell’economia dell’eurozona, ed è ingaggiata da mesi in un durissimo braccio di ferro con i creditori per misure che ammontano a pochi miliardi di euro. Come mai, allora, non si è ancora trovato un accordo, quando gli stessi studi del Fondo monetario dicono che queste politiche sono controproducenti? E come mai si è permesso ad un’economia di queste dimensioni di arrivare a rappresentare una minaccia mortale per l’euro?
Le ragioni sono essenzialmente due. Primo, la paura che una “vittoria” di Syriza vada a vantaggio degli altri partiti anti-austerità del continente, come Podemos in Spagna. Secondo, il rifiuto delle élite europee di ammettere che lo scopo del bail-out della Grecia non era quello di salvare i greci ma le grandi banche del continente. Questa è la vera partita che si sta giocando dietro le quinte.
La Grecia ha ricevuto due prestiti di salvataggio. Uno nel 2010 da 110 miliardi di euro (30 miliardi dell’FMI più 80 miliardi di prestiti bilaterali degli altri governi europei), e un altro nel 2012 da 165 miliardi di euro (altri 19,8 miliardi dell’FMI più 144,7 miliardi del Fondo europeo di stabilità finanziaria, EFSF, successivamente sostituito dal Meccanismo europeo di stabilità, MES). Non tutti i fondi previsti dai due programmi sono stati sborsati, però; in tutto la Grecia ha ricevuto circa 230 miliardi.
L’EFSF era una società con sede a Lussemburgo che aveva lo scopo di «preservare la stabilità finanziaria dell’unione economica e monetaria dell’Europa» attraverso l’emissione di titoli per un totale di 440 miliardi di euro, da destinare ai paesi in difficoltà economica. Alla prova dei fatti, però, il denaro dell’EFSF è servito a salvare i creditori della Grecia – soprattutto le banche francesi e tedesche – attraverso il “prestito” offerto alla Grecia. La Grecia non era altro che un tramite. Dei 230 miliardi sborsati alla Grecia, si stima che solo 27 miliardi siano andati a finanziare le attività dello Stato greco, che dal 2013, infatti, è in avanzo (o meglio lo era prima che la situazione precipitasse). Il 65% dei prestiti, dunque, è andato direttamente alle banche del centro. Secondo altre stime, il 90% dei “prestiti” avrebbe bypassato completamente la Grecia.
A questo dobbiamo aggiungere il fatto che Mario Draghi, dopo essere subentrato a Jean-Claude Trichet nel 2011, ha riversato 1,2 trilioni di euro di soldi pubblici nel sistema bancario europeo attraverso le Long Term Refinancing Operations. Questo ha fatto scendere i tassi di interesse e salire il valore dei titoli, per la gioia degli obbligazionisti di tutta Europa, che hanno potuto rivendere ai governi – a prezzo maggiorato – i titoli in loro possesso. Nel marzo del 2012, il governo greco, sotto gli auspici della troika, ha lanciato un’operazione di buy-back con cui ha riacquistato i titoli di debito detenuti dalle banche private e dalle altre banche centrali nazionali al 53,4% del valore nominale. In questo modo, 164 miliardi di debito sono passati dal settore privato all’EFSF, e sono ora detenuti dal suo successore, il Meccanismo europeo di stabilità, dove creano così tanti problemi. Se vogliamo capire perché l’eurozona non riesce a risolvere un problema che ammonta a un normale contratto di difesa del Pentagono, è da qui che dobbiamo partire. Come ha ammesso l’ex governatore della Bundesbank Karl Otto Pöhl, tutta questa vicenda «aveva l’obiettivo di evitare perdite alle banche tedesche e soprattutto francesi».
Per risolvere il problema, i leader dei paesi core dovrebbero ammettere che quei soldi non sono finiti nelle tasche dei greci ma in quelle – già ampiamente rimpolpate negli anni precedenti – dei banchieri tedeschi e francesi, che nonostante l’haircut del 2012 hanno finito per realizzare un profitto sui titoli di Stato ellenici. Per farlo, però, dovrebbero anche ammettere che, scaricando intenzionalmente le responsabilità dei creditori sulle spalle dei debitori (nazionali), hanno contribuito ad alimentare proprio quegli opposti nazionalismi che l’UE era nata per eliminare. Purtroppo, alla luce della crisi dei grandi partiti tradizionali e dell’ascesa di partiti anti-establishment come Syriza, si tratta di una verità che le élite europee non possono permettersi di riconoscere. Cosa possiamo aspettarci allora?
Nonostante la Germania si sia vista condonare il proprio debito quattro volte nel corso del ventesimo secolo, non possiamo di certo aspettarci che Angela Merkel ammetta di aver usato i soldi dei contribuenti europei per salvare Deutsche Bank. Lo stesso vale per François Hollande e per altri leader. In altre parole, le possibilità di raggiungere un accordo ragionevole sembrano ogni giorno più esigue, mentre il rischio di Grexit si fa sempre più reale. Non è un caso che Tsipras e i suoi colleghi negli ultimi giorni continuino a ripetere che mancano «48 o al massimo 72 ore» alla firma di un’intesa – più o meno quanto rimane alle banche greche prima di diventare insolventi.
Al momento di scrivere, la BCE non sta solo sta violando il proprio statuto, limitando la liquidità d’emergenza offerta alle banche greche, ma ha dichiarato anche che aumenterà l’haircut sui collaterali accettati dalla banca centrale greca per l’erogazione dell’ELA. In altre parole, la BCE non si sta comportando come una banca centrale indipendente ma come il mastino dell’Eurogruppo, con gravi conseguenze per futuro dell’intero progetto europeo. Molti fanno fatica a comprendere quello che sta avvenendo in Grecia perché non hanno compreso che in effetti i bail-out della Grecia altro non erano che una continuazione del bail-out del settore finanziario iniziato nel 2008.
Pubblicato su Foreign Affairs il 7 luglio 2015. Ripubblicato su autorizzazione di Foreign Affairs. Copyright: Council on Foreign Relations, Inc. www.foreignaffairs.com.