di Francesco Saraceno, economista presso l’Observatoire français des conjonctures économiques (Ofce) e la Luiss School of European Political Economy
Twitter: @fsaraceno / Blog: fsaraceno.wordpress.com
Finora ho evitato di parlare della Grecia perché mi sembrava che tutto fosse già stato detto. Ma gli eventi della settimana scorsa hanno confermato quello che sospettavo fin dall’inizio, ossia che la troika, in linea con la quasi totalità dei governi europei, non è mai stata interessata a trovare una soluzione che permettesse alla Grecia di avviarsi sulla strada della sostenibilità fiscale e di rimettere in moto la propria economia. Era solo interessata ad infliggere al governo “radicale” greco una sconfitta totale ed assoluta.
Di fatto, non c’è stato nessun negoziato. A gennaio, le due parti partivano da posizioni molto lontane, come è normale che sia quando si confrontano due visioni dell’economia così diverse. Syriza chiedeva sostanzialmente due cose: la fine dell’austerità, che ha avuto sul paese un impatto molto più duro del previsto, senza offrire in cambio nessuno dei benefici annunciati, neanche sul piano della sostenibilità fiscale; e l’alleggerimento del debito. La troika voleva indietro i suoi soldi, fino all’ultimo centesimo (ad eccezione dell’FMI, l’unica delle tre istituzioni a vedere con favore una ristrutturazione del debito), e la continuazione delle politiche imposte alla Grecia a partire dal 2010 («prima o poi funzioneranno», no?).
Ma c’era un terreno comune che, se si fosse trattato di un vero negoziato, avrebbe permesso alle due parti di giungere ad un compromesso nel giro di poche settimane. Entrambe le parti concordavano sul fatto che l’economia greca presenta molte problematiche e necessita di riforme radicali. Le proposte di Syriza ruotavano attorno alla riorganizzazione e modernizzazione dello Stato, e alla creazione di un sistema efficiente di riscossione delle imposte; le richieste della troika, invece, erano più “classiche” e per certi versi ideologiche: tagli alle pensioni, riforme (liberalizzanti) del mercato del lavoro, e così via. Di fatto, una continuazione del memorandum.
Quando si parla di riforme, però, è cruciale seguire la sequenza appropriata: implementare riforme strutturali in tempo di crisi, quando l’economia non è in grado di assorbire i costi a breve termine di tali riforme, può avere effetti molto destabilizzanti e mettere a repentaglio i potenziali benefici a lungo termine. Gli effetti restrittivi di breve termine tendono ad auto-rinforzarsi e possono rivelarsi del tutto controproducenti sul piano dell’aumento della produttività e del miglioramento dei conti pubblici. Lo stato pietoso dell’economia greca ne è la dimostrazione più evidente: le riforme della troika ed i tagli alla spesa pubblica erano destinati a fallire sin dal principio.
Cosa è successo da gennaio ad oggi? A differenza di quello si sente spesso direi negli ambienti europei, gran parte delle concessioni sono arrivate dal governo greco. Sull’età pensionabile, sull’avanzo primario (sì, alla fine il governo ha rinunciato a fermare l’austerità e si è accontentato di ammorbidirla), sull’IVA e sulle privatizzazioni siamo oggi molto – ma molto – più vicini alle posizioni della troika che a quelle da cui era partito il governo greco.
Il chiodo su cui ha continuato a battere il governo è che alcune riforme, come il miglioramento del sistema di riscossione delle imposte, richiedono maggiori risorse – e dunque maggiore spesa pubblica. Le riforme, per funzionare, devono essere “disaccoppiate” dalle misure di austerità. Syriza, come il governo di Papandreou nel 2010, chiedeva tempo e, possibilmente, un po’ di soldi. Non ha avuto né l’uno né l’altro.
C’erano solo due linee rosse che Tsipras non voleva e non poteva scavalcare: rinunciare ad aumentare le tasse sui ricchi (e in particolare sulle grandi imprese) ed accettare ulteriori tagli alle pensioni. Se avesse oltrepassato quelle linee, sarebbe diventato indistinguibile da Samaras e dai governi che hanno condotto la Grecia al disastro in cui si trova oggi.
Quello che gli eventi dell’ultima settimana hanno reso evidente è che questo è sempre stato l’obiettivo reale dei creditori. Quella che si giocava era – ed è – una partita squisitamente politica, in cui le considerazioni di carattere economico c’entrano ben poco. Molto semplicemente, i creditori non possono permettersi che si materializzi, in Grecia e nel resto dell’eurozona, un’alternativa alle politiche seguite finora.
Deve essere chiaro a tutti che l’austerità e le riforme strutturali sono l’unica strada possibile. Altrimenti i cittadini potrebbero cominciare a porsi delle domande; un rischio che le élite non possono permettersi di correre a pochi mesi dalle elezioni spagnole. La sconfitta di Syriza deve essere esemplare, per dimostrare a tutti che in Europa non c’è vita al di fuori del consenso di Berlino (e di Bruxelles).
La “trattativa” altro non era che uno specchietto per le allodole. Chi, come noi, ha speso fiumi di parole per analizzare i pro e i contro della varie opzioni sul tavolo, ha sprecato il proprio tempo. Ecco perché a questo punto a Tsipras, come a Papandreou prima di lui, non rimane che chiedere alla popolazione greca di esprimersi.
E se la Grecia deve cadere perché la verità venga a galla, così sia. Se dobbiamo trasformare l’eurozona in un club in cui i paesi possono entrare ed uscire a loro piacimento, così sia. Una cosa è certa: l’Unione europea sta attraversando uno dei momenti più bui della sua esistenza.