Sta salendo in Europa la febbre del referendum. Entro il 2017 è atteso quello britannico, che chiederà chiaramente agli elettori se vorranno restare o meno nell’Unione europea. Domenica prossima dovrebbe svolgersi quello in Grecia, in cui la domanda è diversa, è su un tema specifico, ma lo spirito, accettare o no una decisiva proposta europea, potrà avere esiti al momento ancora difficili da interpretare sul modo con il quale la Grecia potrà restare nell’Unione. Sulla scia di questi ora anche la destra danese sta chiedendo un referendum sull’Unione.
E’ l’esito di sette anni di crisi, gestita male da istituzioni poco efficienti e politici poco capaci. E’ l’esito del populismo, che insegna a guardare non oltre il proprio naso, le proprie sensazioni, senza pensare a che esiste anche un domani. E’ però probabilmente anche il frutto, atteso, di tanti anni nei quali il progetto europeo è diventato per molti governi solo una scappatoia alle responsabilità nazionali. “Ce lo chiede l’Europa” è, in tutti i Paesi o quasi, lo slogan con il quale i governi hanno tentato di far accettare ai loro cittadini le scelte più difficili, alle volte sgradevoli, alle volte sbagliate come in Grecia, cercando di scaricarsene le responsabilità.
E’ un fallimento per tutti noi che ci abbiamo creduto, nell’Europa unita, e che non siamo stati capaci di mantenere vivo quel sogno. Siamo diventati un’Unione che sembra parlare solo di rigidità, austerità, dove l’esercizio più diffuso è quello di gettare i problemi nell’orto del vicino, o di lasciarceli, in maniera miope, come con l’immigrazione. Si sta insieme solo per affrontare qualche necessità e meno per costruire, e ancor meno per valorizzare quello che essere nell’Unione ha significato. Senza dover ricordare i decenni di pace (interna) che ha portato l’Unione, in un continente che per secoli ha visto costantemente guerre, e distruzioni. Mi viene alla mente un filmato che la Commissione europea fa girare da qualche tempo, nel quale si vede cosa sarebbe la “non Europa”. Cancellare quello che è stato costruito in questi decenni vorrebbe dire non avere le possibilità di viaggiare che abbiamo ora, vorrebbe dire avere frontiere tra ogni Paese, vorrebbe dire, per chi ce l’ha, non avere più una moneta che permette di girare per 19 Paesi senza cambiare, vorrebbe dire non avere un mercato interno dove esportare e comprare con regole vantaggiose. Vorrebbe dire essere tutti chiusi nei nostri confini a cavarcela da soli in un mondo che cresce sempre di più, dove le piccole economie nazionali non avrebbero un futuro contro i giganti che ora commerciano nel mondo. Non è un caso che anche Brasile, Russia, Cina, India, e altri, Paesi lontani tra loro, stanno lavorando insieme e hanno messo allo studio addirittura una loro moneta comune.
La risposta, evidentemente sbagliata, che si sta dando alla crisi greca, sbagliata perché non piace a loro ma divide anche i creditori, e comunque sbagliata perché non è stata individuata una soluzione che funzioni, è solo l’ultima goccia. E’ arrivato il momento di un nuovo slancio, di dire “l’Europa siamo noi”, di avere una classe politica che riesca a valorizzare i vantaggi dello stare insieme, pur con dei limiti che inevitabilmente ci sono, non esiste un esercizio umano “perfetto”. Per riuscirci occorrono uno slancio e un realismo che in questo momento non si riescono a vedere tra i leaders dell’Unione, che rischiano di restare essi stessi schiacciati da un’ondata più feroce che mai di antieuropeismo. Che non è congenito, non è “obbligato”, ma che è frutto della delusione di un’Unione gestita senza visioni di lungo termine, che nelle sue istituzioni è diventata in gran parte solo gestione di potere fine a se stesso e con una classe politica che non ha saputo offrire risposte di lungo periodo a crisi drammatiche ma anche al normale corso di un processo che non può essere sempre fatto di momenti di entusiasmo, ma deve esser chiaro. Una chiarezza che non c’è, e allora si arriva ad un clima di egoismi miopi da basso impero.