di David Broder
Il mese scorso, a circa un anno dalle elezioni europee, la “Lista Tsipras”, la coalizione di sinistra radicale ispirata a Syriza, si è dissolta. Il partito aveva raccolto la rispettabile cifra di un milione e centomila voti (che gli hanno dato tre deputati al Parlamento europeo), ma la situazione si è presto deteriorata. Due settimane fa Barbara Spinelli, cofondatrice e deputato europeo della “Lista Tsipras”, ha lasciato la coalizione dichiarando che non vuole contribuire all’ennesima atomizzazione della sinistra. Tra i fondatori del quotidiano la Repubblica, la Spinelli faceva parte dell’ala liberal-ecologista del partito, che raccoglie forze politiche provenienti da frammenti dell’ormai disciolto Partito Comunista Italiano (PCI).
A molti non è dispiaciuto l’addio della Spinelli, che aveva promesso prima delle elezioni del 2014 che non si sarebbe seduta al Parlamento europeo, mentre lo ha fatto comunque, ed ora, dopo aver abbandonato il fronte politico con cui è stata eletta, resta attaccata alla sua carica di deputato europeo e ai centomila euro annui di salario che ne derivano. Lasciando da parte l’arroganza che traspira dal comportamento della Spinelli, le sue dure parole d’addio hanno toccato un nervo scoperto, evidenziando il fallimento della “Lista Tsipras” nel raccogliere consensi al di fuori di un elettorato tradizionalmente di estrema sinistra. Questa è stata la grande debolezza di vari progetti di coalizione tentati in Italia, a partire dagli anni novanta del secolo scorso fino ad oggi, e rappresenta una palese contraddizione rispetto alla situazione greca.
In qualche modo questo esito era scritto nel DNA della “Lista Tsipras”: per quanto le classi lavoratrici greca ed italiana abbiano interessi comuni rispetto alla crisi dell’eurozona, chiamare un partito con il nome di un leader politico straniero difficilmente può essere considerata una strategia vincente. Ma la proposta della Spinelli per una forza politica di centrosinistra, in qualche modo “liquida”, è una strategia destinata a replicare – senza per altro rappresentare di per sé un’alternativa – la perdita di direzione politica che ha caratterizzato la sinistra radicale nell’ultimo ventennio.
Un movimento in stato confusionale
La tragedia è che quindici anni fa uno dei componenti principali della “Lista Tsipras”, Rifondazione Comunista – l’altro, SEL, Sinistra Ecologia e Libertà, è nato nel 2008 proprio da una scissione in Rifondazione – ha rappresentato esso stesso una grande speranza della sinistra europea. Rifondazione ha raccolto oltre due milioni e mezzo di voti in più competizioni politiche nazionali ed europee ed ammirazione come partito con la presenza più forte nei movimenti anticapitalisti post-Seattle. Ancora oggi, benché conservi ancora venticinquemila tessere, Rifondazione ha poche sezioni funzionanti, non ha un giornale ed ha una minima visibilità pubblica residua.
Il collasso di Rifondazione è esemplare dello stato confusionale della sinistra radicale italiana e della sua incapacità di mobilitare lo stesso tipo di sentimenti anti-sistema ed anti-establishment che sono stati capaci di mobilitare Syriza in Grecia, Podemos in Spagna e perfino la destra populista nella stessa Italia.
La sinistra radicale è ancora disorientata dal disastroso coinvolgimento di Rifondazione nei governi di centrosinistra degli anni 2000. Concentrata sull’obiettivo di tenere Berlusconi all’opposizione, Rifondazione ha in effetti esercitato una scarsissima influenza nella coalizione di cui era parte ed ha continuamente diluito i suoi stessi capisaldi politici fino al punto di votare a favore della guerra in Afghanistan per mantenere al potere il liberal-sociale Romano Prodi e la sua coalizione di centrosinistra. Il risultato furono le elezioni del 2008, con il trionfo di Berlusconi e, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, nessun parlamentare comunista eletto, che provocarono una diffusa demoralizzazione tra la sinistra radicale.
Nonostante Berlusconi arrivi al potere per la prima volta nel 1994, nel bel mezzo della crisi del sistema democratico italiano – con l’auto-immolazione del PCI nel 1991 si era anche sciolto il collante anticomunista che teneva insieme i suoi grandi rivali democratici cristiani – la sinistra italiana sembra oggi incapace di smentire il mito secondo cui l’Italia è governata da un establishment liberale cui si contrappongono dei populisti di destra.
Generalmente invocando la necessità di “difendere la Costituzione” che è nata dalla resistenza antifascista o denunciando che Berlusconi o la destra infrangono i mistici “valori etici repubblicani”, buona parte di quello che un tempo era il movimento comunista italiano sembra incapace di rompere con preoccupazioni retoriche del PCI vecchie di decenni.
Retorica riciclata
Questa paralisi politica arriva nonostante un significativo spostamento a destra in entrambi gli opposti schieramenti ed un governo guidato dal Partito Democratico di Matteo Renzi, che oggi governa l’Italia in coalizione con piccole forze centriste e di centrodestra. Il partito del primo ministro Renzi include il grosso del vecchio PCI, insieme a varie forze liberali e democristiane che si sono fuse con esso a più a partire dagli anni ’90 del secolo scorso.
Se Rifondazione o SEL guardano oggi a Syriza per ispirarsi, il PD che governa l’Italia sembra un consapevole tentativo di scimmiottare il liberalismo americano: ha adottato il nome “Partito Democratico” durante la competizione elettorale nazionale del 2008 nel tentativo d’intercettare il clamore intorno alla figura di Barack Obama, come del resto più sfacciatamente evocato dal “grido di guerra”, incautamente pronunciato e rapidamente smentito, del suo allora leader Walter Veltroni: “Yes we can”.
Da parte sua, Renzi è un dichiarato discepolo di Tony Blair ed ha fatto sua la tattica del suo mentore di confrontarsi aggressivamente con la sua base per dimostrare le sue credenziali come leader. Tra le sue iniziative legislative chiave, il liberaleggiante “Jobs Act” e l’abolizione dell’articolo 18, entrambe le quali rendono, da una parte, più deboli i sindacati e, dall’altra, più facile per le imprese licenziare i lavoratori.
In un certo senso, il leader del PD è andato abbastanza oltre rispetto a Blair nel manifestare apertamente il suo disprezzo nei confronti di quelli che sono i “partner sociali” storici del suo partito. In risposta alle sue provocazioni, Susanna Camusso, leader della CIGL, una federazione sindacale forte di cinque milioni d’iscritti, ha recentemente dichiarato che non voterà per il suo partito.
Comunque, sebbene partiti come il tedesco SPD e il greco Pasok abbiano malamente compromesso il consenso della propria base, sostenendo al governo politiche conservatrici, il principale partito di centrosinistra italiano sta operando uno spostamento ancor più radicale, abbandonando ogni riferimento alla democrazia sociale e propagandando apertamente il suo approccio manageriale e la sua agenda neoliberista. Si tratta di un’invasione del territorio politico della destra largamente conosciuto come “Berlusconismo senza Berlusconi”.
Indubbiamente, il partito di Renzi sta conservando una posizione elettoralmente più forte rispetto alla socialdemocrazia europea più in generale, almeno nel senso che le grottesche azioni politiche di Berlusconi hanno frammentato la destra tradizionale in talmente tante schegge che i democratici beneficiano di un governo solido con solo il 35 per cento dei voti.
Il primo ministro Renzi ha ora tentato di consolidare il proprio vantaggio con l’introduzione di una nuova legge elettorale. Essa propone un nuovo sistema antidemocratico che assegna un larga maggioranza parlamentare al partito che ottiene più voti, anche se il suo il risultato è ben al di sotto della metà dei votanti. I cambiamenti previsti dalla nuova legge elettorale renderanno ancora più difficile per i piccoli partiti riuscire ad eleggere rappresentanti in parlamento, ponendo ulteriori ostacoli alla discesa sul terreno elettorale della sinistra radicale.
Ci sono alcuni segnali di speranza. Un recente sviluppo particolarmente significativo è stata l’opposizione alla riforma dell’istruzione primaria e secondaria di Renzi, “La buona scuola”, con molta attenzione rivolta dai media allo sciopero degli insegnanti, che in marcia attraverso Roma hanno dichiarato senza remora o fatica “non voteremo mai più il PD”.
Tra le altre cose, la legge appena passata alla Camera dei Deputati obbliga gli studenti delle superiori a stage gratuiti in azienda, prendendo di mira soprattutto gli studenti poveri e della classe operaia. Infatti, se gli allievi del liceo – un tipo di scuola superiore che si rivolge prevalentemente ai figli della classe media – devono lavorare almeno 200 ore ogni anno, i loro omologhi delle scuole tecniche e professionali devono dedicare a questa attività come minimo 400 ore.
La mobilitazione per cambiare la legge è stata una delle più importanti lotte negli anni recenti, perché è più un movimento per difendere, in prima istanza, l’educazione stessa piuttosto che solo una mera questione di categoria legata agli interessi degli insegnanti.
La resistenza ha unito sia i sindacati ufficiali che quelli di base ed è stata sostenuta da una vasta mobilitazione di studenti e genitori. Attraverso l’uso di scioperi ufficiali e non autorizzati, con le sue manifestazioni ed occupazioni, questa controffensiva ha anche incoraggiato i partigiani dello “sciopero sociale”, un popolare slogan dell’area dell’autonomia che immagina un movimento che va oltre il luogo di lavoro per coinvolgere più ampiamente precari, disoccupati ed utenti dei servizi.
Un’ulteriore, benché nascente, iniziativa per portare il movimento sindacale fuori dai cancelli delle fabbriche è la “coalizione sociale” messa in piedi da Maurizio Landini, leader della FIOM, sindacato dei metalmeccanici forte di 350mila iscritti. Landini ha descritto il suo nuovo movimento come “uno strumento di partecipazione politica fuori dai partiti”, con iniziative per il momento rivolte a temi come l’opposizione all’austerità, la difesa dei migranti e la lotta al controllo delle imprese da parte del crimine organizzato. Benché la Camusso abbia fortemente criticato Landini per il suo “uso improprio del sindacato per finalità politiche”, in effetti il leader FIOM ha finora dato una definizione poco precisa della sua strategia.
Una destra emergente
Nonostante questi sviluppi positivi, oggi la caratteristica più impressionante della vita politica italiana è che il consenso, perso sia dai partiti socialdemocratici centristi, come il PD, che dalle forze prima aggregate intorno a Berlusconi, sia andato, per la maggior parte, ad alimentare il rafforzamento della destra populista.
Questo fenomeno è chiaramente visibile nella resurrezione della Lega, un partito di destra che una volta propugnava l’indipendenza del Nord Italia ed abitualmente scherniva chiunque vivesse a sud di Firenze con accuse ed insulti razzisti legati a presunte pigrizia e corruzione abituali.
Sebbene solo pochi anni fa il consenso della Lega Nord fosse crollato al 5 per cento, il partito oggi viaggia ormai regolarmente intorno al 15 per cento e gode di un forte seguito persino nei capisaldi storici del PCI nelle città industriali di Torino, Milano e Genova. Recentemente la Lega Nord ha messo su un partito del sud ideato per raccogliere il malcontento di romani e siciliani verso albanesi e “marocchini” (“marocchino” è un epiteto dispregiativo utilizzato nei confronti degli immigranti provenienti dall’area che va dal Nord Africa al Medio Oriente e di lì fino all’intero subcontinente indiano). A febbraio ha manifestato a Roma dopo aver ricevuto un video messaggio di auguri da parte di Marine Le Pen, leader del Front National, il partito di estrema destra francese.
Questo incanalamento di sentimenti anti-sistema nel populismo di estrema destra è espresso, almeno in parte, anche nella forza del Movimento Cinque Stelle (M5S), che, per quanto estremamente eclettico nella sua cosmesi ideologica, raccoglie esponenzialmente consenso intorno alle idee politiche anti-migranti, anti-europeiste ed anti-sindacali del suo leader Beppe Grillo. Anche se caotico dal punto di vista organizzativo – ha espulso non meno di 34 dei suoi 168 deputati e senatori in meno di due anni – il M5S è oggi il secondo partito italiano e raccoglie regolarmente non meno del 20 per cento dei voti.
Grillo ha chiesto la “cancellazione” dei sindacati e contestato l’introduzione della cittadinanza per i figli dei migranti nati in Italia. Comunque il M5S non ha la classica base conservatrice o di destra, e gode, in particolare, di un forte sostegno tra i giovani ed i disoccupati. Il suo successo è da addebitarsi ai suoi sforzi zelanti nel mettere a nudo la corruzione del sistema, che hanno fortemente attratto gli italiani non in grado di accedere alle reti di raccomandazioni e favoritismi così prevalenti nei partiti tradizionali.
Il basso livello di conflittualità dei sindacati e la crescente disattenzione alle tematiche di “classe” da parte dei politici di sinistra hanno aperto la strada a quella che alla fine sembra un’illusione senza speranza, l’idea che disfarsi in qualche modo della “casta” o del sistema – che nella visione di Beppe Grillo include anche i grandi sindacati – offrirà una bacchetta magica per risolvere i numerosi problemi del paese. Questi includono infrastrutture terribili, basso tasso di crescita ed una crisi demografica in cui una popolazione attiva in declino paga per una massa sempre crescente di pensionati, senza dimenticare che la metà dei giovani sono costretti a scegliere tra emigrazione e disoccupazione.
In questo senso una fortunata conseguenza del colpo di Blairite di Renzi nel Partito Democratico è stato che ha gettato una secchiata di acqua gelata sui recenti sforzi – il più evidente con SEL, durante la campagna elettorale per le elezioni del 2013 – per creare un “gruppo rossiccio” alleato con il PD che sia accessorio ad un governo e ad una maggioranza nominalmente di centrosinistra. In ogni caso, nelle elezioni regionali del 31 maggio scorso SEL ha sostenuto un certo numero di candidati del PD, in alcuni casi favorendo questo partito rispetto ai candidati che si presentavano con la “Lista Tsipras” ed altri cartelli politici analoghi.
Oltre la subcultura
La Costituzione italiana stabilisce che l’Italia è una “repubblica democratica fondata sul lavoro” ed i funzionari sindacali sembrano non essere mai stanchi di recitare questo mantra. Però, oltre al fatto che il capitalismo italiano ha sicuramente costruito le proprie fortune attraverso salari bassi, fatica massacrante e la trasformazione della vita umana in capitale, questa frase romantica è sempre stata una finzione. E due decenni dopo la scomparsa dei partiti che scrissero queste parole, questa carta fondativa è lettera morta.
La difesa di retroguardia dei “valori etici repubblicani” o della “Costituzione” da parte della sinistra radicale vecchio stampo ha poco da dire agli espropriati e ai marginalizzati, a coloro che non hanno un posto stabile nella società o anche la solo la speranza di averne uno. I rimpianti per il passato o i tentativi di raggranellare i voti dei vecchi elettori del PCI sono vie sicure verso la morte politica.
La speranza è sempre l’ultima a morire ed il futuro deve essere ancora costruito, ma la sinistra radicale in Italia (ed altrove) non può semplicemente copiare l’esempio greco. Il successo di Syriza, nonostante la sua precarietà, affonda le sue radici in un attivismo capillare e paziente che inizia prima della caduta del regime dei colonnelli, nel 1974, continua durante la luminosa stagione della socialdemocrazia ellenica, negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, ed ha avuto la sua affermazione con la crisi del Pasok degli ultimi cinque anni.
In Italia, di converso, questo intero periodo è stato caratterizzato dalla rappresentazione al rallentatore del precipitare senza scampo della sinistra radicale verso il suo disastro, gradualmente ridotta a una sorta di subcultura del “popolo della sinistra”, che pecca nell’assenza di una chiara visione esaustiva del futuro dell’Italia.
In questo senso né il resuscitare la tradizione del PCI e tanto meno l’imitare Syriza sono in grado di offrire una risposta alla sua crisi. Se si vuole creare una “Syriza italiana”, bisogna partire dal dare voce agli sfiduciati e ai senza speranza, giudicando con franchezza i fallimenti degli ultimi dieci anni e rompendo con chiarezza con ogni tipo di identificazione con la “famiglia della sinistra” ispirata a tradizioni repubblicane in sfumature di rosa.
Pubblicato sulla rivista statunitense Jacobin il 10 giugno 2015.