di Luigi Pandolfi
Le elezioni in Turchia hanno segnato senz’altro una svolta. Resta da capire, però, chi ha perso e chi ha vinto realmente. Sulla sconfitta di Erdogan e, almeno per il momento, del suo tentativo di spingere più avanti il processo di riorganizzazione in chiave autoritaria dello Stato non ci sono dubbi. Più complessa è invece la “questione” relativamente ai vincitori.
Si fa presto, infatti, a dire che “i curdi sono entrati in parlamento”. Invero, ciò che è accaduto in questa tornata elettorale va molto al di là di una semplice rivincita del popolo curdo, dopo anni di lotte infruttuose e di esperimenti politici fallimentari. Possiamo dire che il successo dell’HDP (Halkların Demokratik Partisi, ‘Partito democratico dei popoli’) costituisce, più in generale, un punto di svolta nella storia della sinistra turca? Sì, senza dubbio. Ma vediamo perché.
Quando nell’ottobre del 2013 fu celebrato il congresso di fondazione dell’HDP, l’eco della rivolta di Gezi Park non si era ancora spento. Per di più era ancora in moto la macchina della repressione allestita dal governo, che già aveva mietuto otto vittime, tra cui il giovane Berkin Elvan, elevato poi ad icona nelle manifestazioni di piazza contro le violenze della polizia. Il messaggio che giunse da quelle assise fu molto chiaro: la questione curda è parte di una questione più grande, nazionale, che riguarda la democrazia, le libertà politiche e civili, i diritti delle minoranze, le condizioni materiali di vita dei ceti popolari. Per questa ragione il BDP (Barış ve Demokrasi Partisi, ‘Partito della pace e della democrazia’) – formazione politica curda di orientamento socialdemocratico, da cui provengono i principali esponenti del nuovo partito, tra cui lo stesso Selahattin Demirtaş – non è più sufficiente per corrispondere alle nuove sfide che provengono dalla società e, soprattutto, dal mondo giovanile. Gezi Park non è stato un tumulto estemporaneo, ma l’esplosione di una forte domanda di cambiamento, alla quale bisogna dare una proiezione politica ed istituzionale.
Su questo presupposto si dà vita, quindi, ad un partito contenitore, sul modello della Syriza prima maniera, nel quale confluiscono movimenti, organizzazioni della società civile, piccole formazioni di sinistra ed esperienze di lotta contro le politiche economiche portate avanti dal governo. Il dramma del popolo curdo viene elevato a paradigma della condizione di disagio, di marginalità, in cui versano, su scala nazionale, ampi e differenti settori della popolazione. In fondo, ciò che lo stesso Abdullah Ocalan aveva auspicato nel suo messaggio al congresso, riconoscendo l’opportunità, la validità, dell’operazione politica.
A proposito della Turchia, si è parlato molto in questi anni di deriva islamico-autoritaria, meno delle condizioni economiche del paese e dei rischi connessi al suo particolare modello di sviluppo. C’è stato un momento nella storia recente del paese in cui i tassi di crescita del PIL erano a livello di quelli cinesi. Nel 2010 e nel 2011, in particolare, proprio nel pieno della crisi transatlantica iniziata nel 2007, si registrò un aumento della ricchezza nazionale nell’ordine, rispettivamente, del 9,2 per cento e dell’8,8 per cento. Numeri straordinari, frutto tuttavia di massicci afflussi di capitale estero e di una più che espansiva politica del credito da parte delle banche nazionali. Parliamo della “bolla turca” – speculazione edilizia e grandi opere comprese –, alla quale, ancora oggi, sono collegati rischi fortissimi per la tenuta dell’economia nazionale, e non solo.
Un’economia drogata dal credito e dalla manodopera a basso costo per le imprese multinazionali che, di fronte agli acciacchi dell’economia globale, ha presto mostrato tutti i suoi limiti. In quattro anni il tasso di crescita del PIL ha lasciato per strada più di 6 punti percentuali e milioni di cittadini si sono ritrovati alle prese con un debito non più sostenibile. Morale: i cittadini continuano ad indebitarsi, ma non per spendere, consumare, piuttosto per ripagare lo stesso debito. A risentirne è l’economia nel suo complesso e, ovviamente, l’occupazione. Proprio il tasso di disoccupazione ha fatto registrare a gennaio di quest’anno un nuovo balzo in avanti, segno tangibile di una frenata dell’economia che potrebbe avere sviluppi ben più gravi nei prossimi mesi. Il tutto dentro un quadro di relazioni industriali ancora molto svantaggiose per lavoratori e sindacato, causa, peraltro, di un tasso elevatissimo di infortuni e di mortalità sul lavoro.
Tutto questo ha a che fare con Gezi Park, le rivolte studentesche degli anni scorsi, le proteste operaie? Certamente. L’opposizione dei giovani (e non solo) di Piazza Taksim alla costruzione di un centro commerciale nel Parco Gezi aveva anche un significato politico generale: veniva messo sotto accusa un modello di sviluppo incentrato sul trinomio debito-speculazione edilizia-aggressione ambientale. L’altra faccia della medaglia della svolta autoritaria ed islamista impressa da Recep Tayyip Erdoğan al paese. Un modello che, dopo una prima fase segnata da euforia e forti aspettative, sta sempre più lasciando spazio alle paure, all’insicurezza sociale, alla rabbia.
L’HDP del giovane Selahattin Demirtaş è riuscito a stabilire una “connessione sentimentale” con questa parte della popolazione turca, desiderosa di cambiare pagina, di vivere in un paese libero, laico, più giusto, rispettoso dell’ambiente. Le parole chiave della campagna elettorale di Demirtaş? Donne, giovani, arcobaleno (riferito alle diverse identità sessuali), infanzia, democrazia, diritti, pluralismo, pace, lavoro. Un programma di cambiamento rivolto a tutta la società turca. In verità, anche l’atto costitutivo di una nuova sinistra che sa guardare con intelligenza ed ottimismo al futuro.