di Tonino Bucci
Gregor Gysi, l’uomo che di fatto ha accompagnato per mano la Linke tedesca dalle origini a oggi, lascia. L’esponente politico più apprezzato in Germania per le doti retoriche, colui che ha traghettato la Linke dalle ceneri della DDR e dai tempi della PDS fino a farne la terza forza politica del paese con percentuali intorno al dieci per cento, ha annunciato che non si ricandiderà alla guida del gruppo parlamentare del partito – praticamente il ruolo simbolico più importante a livello istituzionale. Continuerà il suo impegno politico, ma solo nelle retrovie.
È questa la novità più importante emersa dal congresso della Linke che si è concluso domenica scorsa a Bielefeld, persino con un pizzico di incredulità. Non solo perché Gysi ha dato un contributo difficilmente contestabile alla storia di questo partito, riuscendo nell’impresa – inverosimile al momento del crollo del Muro – di stabilizzare nel sistema politico tedesco una forza a sinistra della socialdemocrazia. Ma anche perché, a detta di molti commentatori, senza Gysi riesce difficile immaginarsi una Linke che prosegua nella ricerca di un’intesa con la SPD in un ipotetico scenario post-Merkel. A lui soprattutto si deve la strategia della coalizione rosso-rosso-verde. Fino a oggi e per molti anni Angela Merkel non ha trovato ostacoli significativi sulla propria strada. Dai tempi di Schröder e della sciagurata riforma “Agenda 2010” i socialdemocratici hanno perso consensi e a malapena riescono a ricavarsi un ruolo da comprimari come alleati di governo della cancelliera Merkel.
Gysi è stato il principale sostenitore di una Linke a trazione doppia, di opposizione sociale e di governo, che sapesse pungolare da sinistra la SPD e, al tempo stesso, mantenere un filo, un dialogo. A livello locale, dove la Linke ha punte di consenso anche molto alte, ben oltre il venti per cento, la strategia di Gysi può dirsi già realizzata. Già oggi, infatti, un presidente della Linke, Bodo Ramelow, governa il Land della Turingia in alleanza con i socialdemocratici – a detta di molti, una sorta di laboratorio regionale di quella che in futuro potrebbe essere una coalizione rosso-rosso-verde di governo. “Dobbiamo imparare ad andare al governo e rimanere tuttavia opposizione sociale”, ha detto Gysi nel suo intervento al congresso.
Facile a dirsi, difficile a farsi. Ancora oggi sono tanti i punti di attrito tra SPD e Linke. La politica estera, per esempio. “Dobbiamo dire no alle missioni militari, ma non possiamo porre subito come condizione per una coalizione il ritiro fino all’ultimo soldato”. Oppure il TTIP, il trattato di libero scambio fra UE e USA. “Le trattative devono essere sospese, sarebbe già un grosso risultato, ma non possiamo insistere per la fine immediata”. Altro terreno di scontro, l’Europa. “Dobbiamo portare avanti un programma di compensazione sociale nell’UE, senza buttare al mare tutta l’Unione europea”.
Finora Gysi è riuscito a tenere assieme le diverse anime della Linke, gli eredi della DDR e i pragmatici, l’ala più legata ai sindacati, con i cosiddetti fondamentalisti dell’ovest, i comunisti e gli ex socialdemocratici fuoriusciti dalla SPD. Concretezza e compromessi da un lato, grandi obiettivi dall’altro.
E adesso? Dalla SPD il numero due Ralf Stegner si dice preoccupato, “senza di lui l’alleanza rosso-rosso-verde è più difficile da raggiungere”. Ma c’è anche chi la vede diversamente. Le voci danno per probabile il passaggio di testimone della guida del gruppo parlamentare al duo Dietmar Bartsch e Sahra Wagenknecht, il primo esperto e navigato esponente dell’ala “realista”, la seconda esponente per antonomasia della sinistra del partito. Wagenknecht ha sempre rifiutato l’idea di una coalizione con l’attuale SPD e con il suo leader, Sigmar Gabriel, oggi vice cancelliere di Angela Merkel. Politica estera, economia e politica fiscale sono i punti di maggiore contrasto, ma da qui alle elezioni per il Bundestag del 2017 potrebbero cambiare tante cose. Qualcuno pensa che proprio Sahra Wagenknecht, la più accesa critica di una coalizione con la SPD, possa in realtà dare più vigore a questa linea nel partito, proprio in virtù del suo ruolo carismatico sulle componenti interne più a sinistra. In fondo, proprio questa, potrebbe essere l’ultima mossa del cavallo di Gregor Gysi.
A Dresda, intanto, si è votato per l’elezione del sindaco. Una débâcle per la CDU. Non è la prima volta che il partito di Angela Merkel segna il passo nelle consultazioni locali. Questa è l’ennesima conferma di un partito a due velocità. Se a livello nazionale la cancelliera è da dieci anni alla guida incontrastata della Germania, praticamente senza avversari politici, negli scenari locali le seconde file della CDU hanno perso invece tutte le città più importanti. A Dresda, infatti, il candidato CDU, Markus Ulbig, non è andato oltre il 15,4 per cento, nonostante si sia votato in un Land considerato tradizionalmente una roccaforte dei cristiano-democratici. E, quel che più è peggio, con uno scarto notevole rispetto al secondo piazzato – il candidato dei liberali (FDP) Dirk Hilbert (31,7 per cento) – e alla candidata in testa, la socialdemocratica Eva-Maria-Stange (37 per cento), sostenuta da SPD, Linke, Verdi e Pirati.
Con questa ennesima prova deludente, la CDU conferma il suo trend negativo nelle grandi città. Nessuna delle quindici città tedesche è ormai governata dal partito di Angela Merkel. Per quanto riguarda Dresda, non rimane che far confluire i voti al ballottaggio sul candidato dei liberali per scongiurare la vittoria della coalizione rosso-rosso-verde. Da non sottovalutare, infine, il risultato, quasi il dieci per cento, che porta a casa Tatjana Festerling, la candidata del movimento anti-islamista Pegida nato proprio qui a Dresda.
Pubblicato sul blog di Claudio Grassi il 9 giugno 2015.