di Pablo Iglesias
L’ultimo partito spagnolo in quanto a data di nascita è anche il primo in quanto a popolarità. Podemos affonda le sue radici nel movimento degli indignados del 2011 (anche chiamato Movimento 15-M), ma è emerso in gennaio con una petizione lanciata da una manciata di intellettuali. Alle elezioni per il Parlamento europeo di maggio, solo pochi mesi dopo la sua formazione, ha raccolto l’8% dei voti. Oggi è il secondo partito più grande di Spagna per numero di tesserati e il primo nei sondaggi elettorali. Persino il Financial Times è stato costretto ad ammettere che “il nuovo partito appare destinato a mandare in frantumi il tradizionale sistema bipartitico spagnolo”. Ad un’assemblea tenutasi all’inizio di quest’anno a Valladolid, in Spagna, il segretario generale di Podemos, Pablo Iglesias, ha esposto il suo pensiero su come la sinistra possa vincere. Sotto riportiamo un estratto di questo discorso.
So molto bene che la chiave per comprendere la storia degli ultimi cinque secoli è la formazione di specifiche categorie sociali, chiamate “classi”; è per questo che vorrei raccontarvi un aneddoto. Quando il movimento 15-M ebbe inizio, a Puerta del Sol, alcuni studenti del mio dipartimento, il dipartimento di scienze politiche, studenti molto politicizzati – avevano letto Marx, avevano letto Lenin – parteciparono per la prima volta nella loro vita a iniziative politiche con persone normali.
Si disperarono. “Non capiscono niente! Proviamo a dirglielo, voi siete proletari, anche se non lo sapete!”. Le persone li guardavano come se venissero da un altro pianeta. E gli studenti tornavano a casa depressi, dicendo “non capiscono niente”. Gli avrei voluto rispondere: “Non capite che il problema siete voi? Che in politica non conta avere ragione, ma avere successo?”. Potere avere le migliori analisi, comprendere le chiavi di lettura dello sviluppo economico a partire dal sedicesimo secolo, capire che il materialismo storico è la via da seguire per capire i processi sociali. Ma a cosa serve se poi ve ne andate in giro ad urlare in faccia alla gente “siete proletari e nemmeno ve ne rendete conto”?
Il nemico non farebbe altro che ridervi in faccia. Potete indossare una maglietta con la falce e il martello. Potete persino portare un’enorme bandiera rossa, e tornarvene a casa con la vostra bandiera, il tutto mentre il nemico continua a ridervi in faccia. Perché le persone, i lavoratori, continuano a preferire il nemico a voi. Gli credono. Lo capiscono quando parla. Mentre a voi non vi capiscono. E probabilmente voi avete ragione! Probabilmente potreste chiedere ai vostri figli di scrivere sulla vostra lapide: “Aveva sempre ragione – ma nessuno lo seppe mai”.
Quando si studiano i movimenti rivoluzionari di successo, si può notare con facilità che la chiave per riuscire è lo stabilire una certa convergenza tra le proprie analisi e il sentire comune della maggioranza. E questo è molto difficile. Perché implica il superamento delle contraddizioni.
Pensate che avrei qualche problema ideologico nei confronti di uno sciopero selvaggio di 48 o di 72 ore? Neanche per idea! Il problema è che organizzare uno sciopero non ha nulla a che fare con quanto grande sia il desiderio mio e vostro di farlo. Ha a che fare con la forza dei sindacati, e sia io che voi siamo insignificanti in materia.
Voi e io possiamo desiderare che la terra sia un paradiso per l’umanità intera. Possiamo desiderare quello che vogliamo, e scriverlo su una maglietta. Ma la politica è una questione di rapporti di forza, non di desideri o di quel che ci diciamo in assemblea. In questo paese ci sono solamente due sindacati che hanno la capacità di organizzare uno sciopero generale: la CCOO e la UGT. Mi piacciono? No. Ma così è come stanno le cose, e organizzare uno sciopero generale è molto difficile.
Ho partecipato ai picchettaggi davanti ai depositi degli autobus a Madrid. Le persone che erano lì, all’alba, e sapete dove dovevano andare? A lavoro. Non erano crumiri. Ma sarebbero stati cacciati dal loro posto di lavoro, perché lì non c’erano sindacati a difenderli. Perché i lavoratori che possono difendersi da soli, come quelli nei cantieri navali o nelle miniere, hanno sindacati forti. Ma i ragazzi che lavorano come venditori telefonici, o nelle pizzerie, o le ragazze che lavorano nel commercio al dettaglio, non possono difendersi.
Verrebbero immediatamente segati il giorno dopo lo sciopero. E voi non sarete lì, e io non sarò lì, e nessun sindacato sarà lì per sedersi col capo e dirgli: faresti meglio a non far fuori questa persona perché ha esercitato il diritto di sciopero, perché pagherai un prezzo per questo. Questo non succede, non importa quanto entusiasmo possiamo avere.
La politica non è ciò che io o voi vogliamo che sia. È ciò che è, ed è terribile. Terribile. Ed è per questo motivo che dobbiamo parlare di unità popolare, ed essere umili. A volte dovrete parlare con persone cui non piacerà il vostro linguaggio, con le quali i concetti che voi usate non faranno presa. Cosa possiamo capire da questo? Che stiamo venendo sconfitti da parecchi anni. Il perdere tutte le volte implica esattamente ciò: implica che il “senso comune” è differente da ciò che noi pensiamo sia giusto. Ma non è nulla di nuovo. I rivoluzionari lo hanno sempre saputo. L’obiettivo è riuscire a deviare il “senso comune” verso una direzione di cambiamento.
César Rendulues, un tipo molto acuto, afferma che la maggior parte delle persone sono contro il capitalismo ma non lo sanno. La maggior parte delle persone difende il femminismo, anche se non ha mai letto Judith Butler o Simone de Beauvoir. Ogni volta che vedete un padre fare i piatti o giocare con suo figlio, o un nonno spiegare a suo nipote di condividere i suoi giocattoli, c’è più trasformazione sociale in questi piccoli episodi che in tutte le bandiere rosse che potete portare ad una manifestazione. E se falliamo nel comprendere che queste cose possono fungere da fattori unificanti, loro continueranno a riderci in faccia.
Quello è il modo in cui il nemico ci vuole. Ci vuole piccoli, mentre parliamo un linguaggio che nessuno capisce, fra di noi, mentre ci nascondiamo dietro i nostri simboli tradizionali. È deliziato da tutto ciò, perché sa che finché continueremo ad essere così, non saremo mai pericolosi. Possiamo avere toni radicali, dire che vogliamo organizzare uno sciopero selvaggio, parlare di popolo armato, brandire simboli, portare ritratti dei grandi rivoluzionari alle nostre manifestazioni… loro ne saranno deliziati! Ci rideranno in faccia. È quando metterete insieme centinaia, migliaia di persone, quando inizierete a convincere la maggioranza, persino quelli che votavano per il nemico: è in quel momento che inizieranno a spaventarsi. Questo è quello che si chiama “politica”, ed è questo che dobbiamo capire.
Ve lo ricordate quel compagno calvo e col pizzetto che nel 1905 parlava di soviet?. Era un genio. Aveva intuito l’importanza di un’analisi concreta della situazione concreta. In tempo di guerra, nel 1917, quando il regime russo era sull’orlo del collasso, disse una cosa molto semplice ai russi, fossero essi soldati, contadini o lavoratori. Disse: “Pane e pace”. E quando disse “pane e pace”, che era ciò che tutti volevano – che la guerra finisse e che si potesse avere abbastanza da mangiare – molti russi che non sapevano neppure se fossero di “destra” o di “sinistra”, ma sapevano di essere affamati, dissero: “Il tizio calvo ha ragione”. E il tizio calvo fece molto bene. Non parlò ai russi di “materialismo dialettico”, gli parlò di “pane e pace”. E questa è una delle lezioni più importanti del ventesimo secolo.
Cercare di trasformare la società scimmiottando la storia, scimmiottando i simboli, è ridicolo. La strada non è quella di ripetere le esperienze di altri paesi, eventi storici del passato. La strada è quella di analizzare i processi, le lezioni della storia. E comprendere in ogni momento della storia che dire “pane e pace”, se non è connesso a ciò che le persone sentono e provano, non è altro che una ripetizione, sotto forma di farsa, di una tragica vittoria de passato.