di Luigi Pandolfi
Mi accingo a scrivere del successo di Podemos alle elezioni amministrative in Spagna e mi viene in mente l’ultimo libro di Yanis Varoufakis, È l’economia che cambia il mondo, approdato da poco nelle librerie per i tipi di Rizzoli. A dire il vero c’era stato già “qualcuno” in passato che aveva scritto “Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza”. Ma poco importa. Il concetto è (più o meno) lo stesso: sono le condizioni materiali di vita che determinano la coscienza, le convinzioni, le abitudini, delle persone, non il contrario. Sia detto: a differenza di qualche anno fa, non giurerei più sull’apoditticità, sul valore assoluto, di tale assunto. Non ho dubbi, tuttavia, sul fatto che esso spieghi gran parte dei principali trapassi socio-culturali e politici nel lungo tragitto della storia umana. Talvolta, più banalmente, anche l’esito di una semplice tornata elettorale.
La Spagna è stata, ed è, una delle nazioni europee più colpite dalla crisi. Oggi si parla enfaticamente di remontada, per via dei segnali di ripresa che l’economia sta(rebbe) dando in questi primi mesi del 2015. Ma l’eredità di questi anni è pesante: il tasso di disoccupazione rimane abbondantemente al di sopra del 20 per cento (giovanile al 50,9 per cento, peggio che in Grecia), con una forbice tra ricchi e poveri più aperta che in qualsiasi altro paese dell’eurozona. Come in altri paesi europei, anche qui gli ultimi anni all’insegna dell’austerità hanno fatto guadagnare qualche punto sul versante dei disavanzi pubblici, a scapito però del reddito dei cittadini e del lavoro, oltre che del debito, schizzato al 98,1 per cento del PIL (40 per cento in più rispetto al 2008). Certamente non hanno sanato una delle ferite più gravi che il paese si porta addosso: gli effetti dello scoppio della bolla immobiliare, tra pignoramenti, sfratti, aumento del numero dei senza casa. E dei suicidi. Un abisso di disperazione, in cui tante vite sono ancora oggi risucchiate, nonostante i toni trionfalistici del governo che si lascia andare a dichiarazioni del tipo “la crisis es historia pasada”.
È da qui che bisogna partire per comprendere come nasce e perché si sviluppa il movimento degli indignados, opposizione di massa, dal basso, all’ideologia dell’austerity che guiderà i governi socialisti e popolari, dal 2009 ad oggi, nella loro missione devastatrice a danno dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori. Non un movimento “spontaneo”, estemporaneo, a sua volta, ma il prodotto di un intreccio fecondo tra lavoro di ricerca, teorico, sulle conseguenze sociali della crisi – che parte dalle università – ed attivismo politico, militanza, discorso pubblico, lotta per il cambiamento che si dipana nelle piazze, nei quartieri, nella società. Podemos è la proiezione politica di questo movimento, la sua dimensione matura, organizzata. Oggi anche la sua sponda istituzionale. Ma che cos’è realmente Podemos? Un partito? Un movimento? Una rete di cittadini? La risposta l’hanno data più volte i suoi dirigenti più in vista: “Siamo un partito, ma pensato con una logica di movimento”. D’altro canto Pablo Iglesias è il “segretario generale”, non un semplice “portavoce”. Evidentemente in Spagna la crisi di credibilità del “partito” non è arrivata al punto in cui è arrivata in Italia, dove sarebbe impensabile oggi usare espressioni come “segretario generale” o “comitato centrale” per definire gli organismi di vertice di un’organizzazione politica.
Guai a pensare, però, che Podemos sia un partito come tutti gli altri. A fare la differenza è sicuramente il modo in cui avviene la selezione della classe dirigente e come si sviluppa al suo interno il processo decisionale. In entrambi i casi conta molto il web, la rete, alla quale è affidata sia l’elezione degli organismi dirigenti sia la decisione finale sulle questioni da affrontare, sulle scelte da compiere. Non ci sono sedi di partito, tutte le riunioni fisiche si svolgono in luoghi pubblici. Un omaggio ad uno dei miti fondanti del movimento: la piazza. E chi ricopre cariche elettive nelle istituzioni è tenuto a versare al partito più della metà della sua indennità. Niente di nuovo, per carità, tranne il fatto che una parte di questi soldi viene devoluta ad associazioni e collettivi che sul territorio fanno “lavoro sociale”, a favore dei senza tetto, dei precari, dei pignorati, degli indigenti. Una sorta di Movimento 5 Stelle iberico? Non si direbbe. Podemos, a differenza del partito di Grillo, è parte integrante della famiglia della Sinistra Europea e non disdegna, in linea di principio, alleanze con altre forze politiche ed altri movimenti affini per raggiungere i suoi obiettivi. Certo, anche loro amano giocare con le parole, preferendo, ad esempio, alla contrapposizione destra-sinistra quella di “basso contro alto”, ma per sottolineare la centralità e l’importanza del conflitto sociale nella loro visione politica, oltre le etichette della politica tradizionale, non in chiave qualunquista.
Parlare semplicemente di Podemos, a proposito dei cambiamenti politici che attraversano la Spagna, e dei risultati delle elezioni del 24 maggio, sarebbe comunque sbagliato e fuorviante. L’altra novità nel panorama politico del paese in questi ultimi anni è stata la nascita ed il consolidamento di nuove esperienze di cittadinanza attiva a livello locale, metropolitano, cui si deve in gran parte il clamoroso successo delle liste alternative a Barcellona e a Madrid. Parliamo dei Ganemos (dal verbo ganar, vincere), assemblee di cittadini (asambleas de ciudadanos), organizzate per quartieri e rioni (barrios), anch’esse figlie delle grandi mobilitazioni sociali degli anni scorsi contro l’austerità, culminate nella grande acampada di Puerta del Sol a Madrid nel 2011. La differenza tra Podemos e i Ganemos è essenzialmente nella diversa dimensione del loro agire politico, nazionale per il primo, locale per i secondi. Per il resto, entrambi convergono su un dato: la crisi è stata sfruttata dai governi e dalle oligarchie economico-finanziarie per “lanciare un’offensiva aperta contro i diritti e le conquiste sociali della maggioranza della popolazione”. Ai cittadini, pertanto, non resta che organizzarsi dal basso, fuori dal recinto della politica tradizionale, per “riprendersi la democrazia e costruire il proprio futuro”, per difendere i servizi pubblici essenziali ed i beni comuni dai tentativi di privatizzazione, per “presidiare i propri diritti” minacciati dal neoliberismo.
In questo quadro si inserisce il “laboratorio” Barcellona. Qui la vittoria se l’è aggiudicata la coalizione guidata da una figura simbolo delle lotte per la casa: Ada Colau, classe 1974, coautrice del libro Vidas hipotecadas ed ex portavoce della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH), associazione nata sull’onda della crisi immobiliare del 2008, distintasi in questi anni per azioni di disobbedienza civile e resistenza passiva contro gli sfratti. Il raggruppamento che la candidava, oltre a Podemos ed al Ganemos (Guaynem, in catalano) locale Barcelona En Comù, comprendeva anche altre forze politiche come ICV (Iniciativa per Catalunya Verds), i verdi catalani, e Izquierda Unida. Che a diventare sindaco di una città così importante sia una “ragazza” dei movimenti, una paladina degli sfrattati e dei pignorati, fa notizia, certo. Ma ci siamo chiesti quali proporzioni ha assunto il fenomeno degli sfratti in questi anni in Spagna e a Barcellona? Un’epidemia, è stato più volte detto. E questo è. Se a ciò si aggiunge il dramma dei disoccupati, dei giovani senza futuro, degli anziani ridotti in miseria dalla crisi, la cosa diventa un tantino più “plausibile”. O no? E lo stesso discorso, fatte le dovute differenze, potrebbe valere per Madrid ed altri grossi centri in cui le liste alternative si sono imposte su quelle dei partiti tradizionali. Manuela Carmena, giuslavorista, candidata a sindaco di Ahora Madrid, in fondo ha legato il suo nome alle lotte per i diritti dei lavoratori, dei senza diritti, oggi dei precari, degli emarginati. C’entra qualcosa questo con il suo attuale successo elettorale? “Non è la coscienza che determina la vita”, si diceva poco fa.
Resta un dubbio, però: queste esperienze possono essere replicate con successo su scala nazionale? Andiamo ai risultati complessivi di questo turno elettorale. Dopo le europee esso costituiva il primo banco di prova per misurare il potenziale elettorale del “movimento” in vista delle politiche di novembre. La vittoria c’è stata, non v’è dubbio, ma dev’essere interpretata. I numeri dicono che Podemos può davvero ambire a governare il paese, ed a cambiarlo, ma non correndo in solitaria. C’è un’evidente differenza, infatti, tra il risultato che il partito ottiene nelle regioni e quello che, insieme ad altre forze e movimenti, con le cosiddette “coalizioni di unità popolare”, raggranella nei principali centri del paese. Il 10-12% che in media Podemos prende alle regionali è molto lontano dal 25% e dal 31% che la “coalizione” si aggiudica rispettivamente a Barcellona ed a Madrid, per intenderci. Ma il discorso vale anche per altri centri, come La Coruña, Cadice e Saragozza. Nelle alleanze, la sua forza, dunque. O almeno così sembrerebbe. In prospettiva, però, non è scontato che tali “alleanze”, costruite su base locale, possano tradursi sic et simpliciter, su scala nazionale, in un blocco elettorale vincente, il cui successo, ad ogni buon conto, non dipenderebbe soltanto dal voto dei grossi centri, dove più forti, e più consapevoli, sono state le forme di resistenza alla gestione della crisi da parte dei governi che si sono succeduti fino ad oggi, ma anche da quello delle periferie, degli angoli più remoti del paese, della Spagna più profonda.
C’è una dose di populismo nel messaggio che Podemos veicola? Non c’è dubbio. È un segno dei tempi. Crisi sociale e discredito della politica tradizionale costituiscono un binomio inscindibile in questa fase. D’altronde la percezione collettiva dell’inutilità della politica oggi va di pari passo, un po’ ovunque, con quella dei suoi privilegi, della sua separatezza. Questo Podemos l’ha ben compreso; Iglesias ne ha parlato e scritto ampiamente, mettendo in relazione il concetto di crisi economica con quello di “crisi di regime”. Più prosaicamente, lo dimostrano gli slogan del movimento: “¡Que no nos representan!”, “Los partidos de la casta”, “¡Ladrones, corruptos, gentuza!”. Temi trasversali, peraltro, che incontrano favore e suscitano interesse anche tra i ceti meno sensibili alle problematiche sociali, al discorso economico sulla crisi. Terreno su cui, probabilmente, si giocherà il grosso della partita il prossimo novembre. E sul quale Podemos potrebbe colmare alcune sue “lacune” strutturali.
Per intanto il partito di Iglesias, ed i suoi alleati, portano a casa un risultato storico: l’aver messo la parola fine a oltre trent’anni di bipolarismo, quello imperniato sull’alternanza tra PSOE e Partido Popular. Fine di un’epoca. Ma non basta. C’è un altro dato che conferisce valore storico al loro successo elettorale: la (ri)nascita nel paese di una sinistra anti-liberista a vocazione maggioritaria. È l’economia che cambia il mondo, or dunque. Nello specifico, parafrasando, potremmo dire che la crisi, con le trasformazioni sociali ed economiche che ha comportato, fedele alla sua natura “incendiaria”, si è fatta levatrice anche di una sinistra nuova, interprete del suo tempo, al pari di altre fratture storiche e mutamenti socio-economici del passato. Oggi in Spagna, domani in tutta Europa?