di Roberto Errico
Nonostante la crisi europea sia ben lontana dall’essere conclusa, ad oggi è possibile constatare che il primo ed importante lascito di questa fase sia la trasformazione definitiva della Banca centrale europea: da centro decisionale tecnico sulla moneta e sul credito a vero e proprio attore politico, dotato di amplissimi poteri di indirizzo e coercizione nei confronti degli Stati, oltre che del settore bancario. I passaggi attraverso cui la BCE è rapidamente diventata un centro di potere politico cruciale sono intimamente legati non tanto alla contingenza quanto ad un disegno, anche questo genuinamente politico: questo disegno è volto a riempire il vuoto di potere europeo, stante anche il peso specifico ridottissimo del Parlamento europeo e le spinte centripete sempre più forti che provengono da partiti ed opinione pubblica, sia nei paesi che fanno parte dell’euro, sia in paesi come la Gran Bretagna, che l’anno prossimo potrebbe votare per l’uscita dall’Unione.
Management della crisi e “keynesismo privato”
L’interventismo delle banche centrali dal 2009 in poi è un punto imprescindibile da cui partire. Attraverso i vari programmi di immissione di liquidità sui mercati finanziari, la BCE e le altre banche centrali hanno applicato una sorta di “keynesismo privato”. Uno schema molto semplificato del keynesismo classico prevede che lo Stato finanzi una serie di azioni in deficit a sostegno della domanda, nella consapevolezza che altrimenti il prezzo da pagare sarebbe un’eccessiva disoccupazione ed un’ulteriore diminuzione della domanda aggregata causata dalle prospettive pessimistiche degli operatori economici. Per funzionare, il moltiplicatore keynesiano ha necessariamente bisogno di operare in un’economia non eccessivamente aperta e di porre dei limiti seri alla finanza speculativa, al fine di orientare gli investimenti verso l’economia reale.
Nel “keynesismo privato”, succede l’esatto contrario. Le banche centrali immettono liquidità in un sistema aperto, interconnesso e poco regolato per il tramite delle banche e degli altri operatori finanziari. Riescono così a pilotare al ribasso i rendimenti obbligazionari – soprattutto quelli dei titoli di Stato – e a deprimere i tassi di mercato. In pratica, dando i soldi direttamente alle banche, si accetta che quest’ultime si prendano in carico la fase di selezione degli investimenti. Ovvio che istituti votati al massimo profitto preferiscano investire la maggior parte della liquidità sui mercati finanziari stessi e sulle grandi imprese multinazionali, che a loro volta sono delle enormi conglomerate finanziarie prima che industriali, lasciando le briciole ai piccoli operatori locali, i quali sono comunque costretti ad accettare tassi d’interesse molto alti poiché considerati più vulnerabili alla crisi.
La conseguenza a livello globale di queste operazioni è una crescita fittizia dei corsi di borsa, che a sua volta amplifica le disuguaglianze tra i più ricchi – che hanno risorse e consulenza dedicata per operare con successo sui mercati finanziari – ed il resto della popolazione, sostanzialmente esclusa dai vantaggi diretti della liquidità a costo zero e sfiorata appena da quelli indiretti di anestetizzazione dei rendimenti obbligazionari e dei tassi d’interesse. Uno schema à la Piketty, che in Europa sta avendo come ulteriore esito la crescita apparentemente inarrestabile del potere, e non solo quello tipico di moral suasion, dell’Eurotower.
Interventismo e supervisione: la BCE come attore politico
In conseguenza della crisi dei debiti sovrani, il vuoto di potere europeo è stato rapidamente riempito da due blocchi: quello dell’austerità guidato dalla Germania e quello della BCE. Tutta la gestione della crisi, dalla Grecia alle banche spagnole, da Cipro a Portogallo e Irlanda, è stata segnata dalla dialettica tra questi due poli. È una novità assoluta: mai prima è accaduto che una banca centrale sia entrata così nel merito di scelte riguardanti non solo il settore bancario ma anche il mercato del lavoro, le privatizzazioni, le scelte di politica economica e sociale. Nell’imposizione dei bail-in sui conti correnti ciprioti o della ricapitalizzazione delle cajas al governo spagnolo, così come negli eventi degli ultimi giorni in cui la BCE ha sostanzialmente forzato il governo Tsipras verso un accordo al ribasso con l’Europa, l’istituto di Francoforte è entrato nel merito delle scelte politiche degli Stati: ha suggerito – spesso in realtà imposto – le politiche da adottare, comportandosi nei confronti dei PIIGS come il Fondo monetario internazionale si comportò negli anni ottanta con gli Stati dell’Africa e dell’America Latina. Peccato che l’FMI non sia una banca centrale e sia da sempre considerato come un organo politico-finanziario al servizio di interessi ben tangibili.
Lo stesso passaggio della supervisione sulle grandi banche dell’area euro dalle banche centrali nazionali alla BCE ha aumentato il potere d’influenza sulle politiche creditizie e di conseguenza sulle regole di funzionamento dell’economia tutta. Approfittando dell’assenza di altre istituzioni credibili, la BCE ha iniziato ad occupare ogni spazio disponibile, agendo sempre più da organo politico di governo del settore. Così, quando ha avuto necessità di certificare lo stato di salute dei vari istituti bancari passati sotto la sua supervisione, l’istituto guidato da Mario Draghi ha usato due metri di giudizio distinti: ha fatto in modo che le regole dei famigerati stress test minimizzassero la valutazione dei rischi legati al trading su prodotti derivati – un mercato dominato da banche francesi e tedesche – e massimizzassero quelli dei crediti erogati ad economia produttiva e investimenti su titoli di Stato, che rappresentano la maggior parte delle attività creditizie e d’investimento delle banche dell’Europa del sud.
La BCE come organo politico
La vicenda della gestione degli stress test è stata da molti letta come l’ennesima conferma dello stretto controllo tedesco sulle istituzioni comunitarie. Chi scrive è parzialmente in disaccordo con questo punto di vista. Che il peso politico della Germania e dei suoi alleati pro austerità sia molto forte è cosa oramai scontata. Meno scontato è sottolineare come la crescita delle funzioni e del potere della BCE rappresenti una normale continuazione del processo di costruzione europeo di un mercato unico senza Stato e a democrazia limitata. In assenza di meccanismi di controllo democratici, alla BCE è stata affidata negli ultimi anni la funzione non solo di banca centrale, ma anche quella di camera di compensazione nelle relazioni spesso conflittuali tra gli Stati dell’area euro e di traino del processo di costruzione del mercato unico, che troverà la sua più alta realizzazione proprio nel settore finanziario tramite la Banking Union. Per dirla alla Habermas, siamo di fronte ad un “federalismo delle banche centrali” che accompagna il concetto di “federalismo degli esecutivi” con il quale il filosofo tedesco ha definito magistralmente l’ordinamento politico dell’UE. Le dinamiche interne all’UE hanno già depotenziato la capacità di tenuta democratica dell’intero continente, accentrando tutti poteri reali nelle mani degli esecutivi, marginalizzando il ruolo dei Parlamenti e delle forme di governo territoriali. In questo senso, l’ascesa di un nuovo e potente attore, privo di ogni relazione democratica con i cittadini d’Europa, non potrà che approfondire la distanza già esistente tra i popoli europei ed i centri di potere comunitari. E se l’Europa e l’euro riusciranno a sopravvivere a sé stessi, anche i movimenti sociali di tutto il continente dovranno iniziare a fare i conti con questo nuovo, e per certi versi inedito, centro di potere.
Articolo tratto dalla rivista di Attac Italia Granello di Sabbia di marzo/aprile 2015, scaricabile qui.