Elio si sveglia, dorme, esegue i compiti che si è dato e anche gli imprevisti necessari, sta in casa, va fuori, di nuovo in casa, forse dovrà uscire ancora ma poi rinuncia; durante un andirivieni, nel passare davanti allo specchio si gira e dice al riflesso che lo guarda “tu sei Elio, lo so, ma ignoro cosa voglia dire, e cosa ci si aspetti da me e da te, data la circostanza, e se mi giovi, e perché, riconoscere la tua identità, che poi non so neanche cosa significhi, identico a chi?, identico chi?”, ma non aspetta risposte, lo svilupparsi delle sue azioni è di una consequenzialità solo apparente, ogni singolo gesto potrebbe essere tolto dall’ordine cronologico in cui nasce e, disposto in un diverso assemblaggio, dare luogo a sviluppi inediti, sorprendenti, né fantasia né sogno, sia chiaro, nessun pathos creativo, solo obbedire a proprietà combinatorie che rotolano nel bussolotto del caso prima di venir pescate e diventare a buon diritto “quel che accade”, anzi, “quel che gli accade”. Il tema è la vita ma serve a poco precisarlo, perché ogni tema, si sa, è un pretesto, e conta invece che per la seconda volta, nell’arco di poche settimana, Elio si svegli in un pianto irrefrenabile. Succede il venti marzo, a cinque mesi esatti dalla morte di sua madre, a causa di un sogno che è la replica fedele di quel venti ottobre in cui Nadija gli dice non respira più; e un paio di settimane dopo, quando, sempre in sogno, discute allo stremo con la madre di suo figlio. Pianti che poi, per legittima difesa, prova a dimenticare; naturalmente non ci riesce, e si accontenta di serbarne il ricordo ma mondo del dolore che li ha scatenati.
In volo per Bruxelles alle sette del mattino, sulla scia di riflessioni svagate attorno al tema della malattia, Elio ritiene che la figura dell’eroe abbia assunto contorni così inediti da poterla prendere in considerazione, oggi, più in rapporto alla sfida singolare e privata con se stessi che non a quella plurale e pubblica con la sorte avversa. Ovvero, un comportamento è eroico quando un soggetto qualsiasi, per vincere i propri limiti, affronta difficoltà personali ritenute fino a quel momento insormontabili. È convinto che questa figura di eroe intimo e sconosciuto sia abbastanza diffusa, e benché non somigli in niente a quella classica, capace di compiere azioni clamorose per il bene altrui, ritiene che sia altrettanto socialmente utile perché nel flusso degli atti condivisi l’eroismo intimo immette piccole dosi di soluzioni, anziché le scorie di chi traduce in falsa coscienza le proprie inadeguatezze.
Se Elio guarda alla sua vita e a quella delle persone a lui vicine, conviene che a volte si è consapevoli dell’eroismo intimo, ma altre, invece, si va e si agisce ignari di tutto, pronti a osare l’impensabile con la fatica di superarsi stampata in faccia. Così facendo si edificano piccole realtà positive da cui anche altri trarranno beneficio; a voler esagerare, si migliora un po’ il mondo. Ma nonostante la propensione virtuosa, accade che ogni tanto l’eroe intimo si scopra vigliacco, bambino spaventato in cerca di impossibili madri e padri che lo cavino d’impaccio, risoluto a non affrontare di persona nulla che richieda il superamento di qualsivoglia limite, convinto solo del proprio non farcela e determinato ad affermarlo contro chiunque tentasse di convincerlo del contrario. Persa la fiducia in se stesso, alla prima occasione l’eroe mancato scappa verso la paura, l’angoscia, il terrore. A quel punto può solo diventare taciturno e scontroso o, se costretto al dialogo, trincerarsi dietro qualche filosofia negativa che liquidi il coraggio come il residuato di pettegolezzi idealisti.
Col crescere della luce i luoghi si animano, le realtà prendono forma: vivono paesi, città, campagne, comunità montane, asfalti e strade sterrate, binari, stazioni, piazzole di sosta, parcheggi, osservatori scientifici, sale d’attesa, vie del sale. Vive l’ospedale coi suoi risvegli precoci e il disinfettante, le colazioni annacquate e la conta spinata del tempo, vivono amori e fallimenti, figli e incertezze di lavoro, la prepotenza e il furto, la violenza, il sangue agli occhi, l’incidente chiamato abbandono, l’incomprensione e la povertà (dei ricchi si sa poco, salvo che vivono anch’essi). In filigrana a questo esordire quotidiano della luce, Elio rivede l’immagine di via Cavour là dove, a largo Corrado Ricci, si immette in via dei Fori Imperiali, col flusso di auto che segna di morbida torsione la curva per e da piazza Venezia. La rivede, quell’immagine, in una prospettiva dall’alto impossibile da qualunque abitazione affacci sulla strada, inutile anche sporgersi dalle finestre degli ultimi piani, il punto di vista rimane proibito, per raggiungerlo bisognerebbe volare, semmai, o stare sospesi con altri mezzi nello spazio fra le case che in quel tratto terminale (o iniziale) di via Cavour risulta notevole. Ma se così è, da dove nasce allora la visione, giacché Elio non potrebbe dire che sta rivedendo quell’immagine se non avesse la certezza di averla già vista? E quando, dunque, l’avrebbe vista? E grazie a quale prodigio avrebbe potuto dispiegare lo sguardo da un punto di vista così aereo?
Senza luogo senza parole, sole pallido del 2 maggio, traffico in festa auto pulite, poche discese molte salite, comincia in grigio l’avenue de Brouckere per quella tinta sulla facciata a mattoncini, il verde detta le sue lezioni, restano poche soddisfazioni, le dieci e trenta che farà Alessandro?, lontani il lontano è sopportabile ma vicini il lontano è solo orribile, idiozia dei genitori idiozia del mettere al mondo, Elio non odia la specie umana ma l’ama sempre meno, oggi si guarderebbe bene dal contribuire alla sua moltiplicazione, è solo un pozzo di delusione, gli sono così antipatici gli umani che non sopporta neanche gli animali domestici, scendere a patto con gli umani è degradante, belli solo gli animali ostili che non ronfano non scodinzolano non riconoscono, incompatibili col circo delle buone maniere, al paniere delle buone maniere opporre pietre sassi durezza che sfonda, sfondare il paniere delle umane troppo umane buone maniere, chi rispetta aspetta a un angolo di strada, dieci e quarantacinque ancora nessun segnale, la casa è interdetta l’ospite si rispetta, i bambini avranno fatto colazione ma le mamme?, ancora a dormire ancora in mutande?, perché nessuno dice a Elio di salire?, la vita gli cola sopra un’aiuola, sente tutta l’offesa dell’attesa, aspetta sempre più impaziente, le dieci e cinquantacinque nessun segnale, potrebbe presentarsi senza permesso ma rischia la piazzata, non gli resta che aspettare odiando un po’ e detestando molto, a passi lenti arriva davanti alla scuola di Alessandro, cancello chiuso di sabato si sa, alla undici e dieci sta ancora lì davanti e guarda il verde dei grandi ippocastani quando riceve un messaggio, puoi fare mezz’ora di matematica con Alessandro?, in cinque minuti è sotto casa sua, suona al citofono, dice lo aspetto, alla vista di suo figlio trova pace, vanno su una panchina fra la Passerelle e la scuola, il sole addosso è bello in aria fresca, penna quaderno le riduzioni in scala, chiarito il concetto esercizi giusti, il tempo quando serve torna ampio, si scrive “mezz’ora” ma si pronuncia “eterno”.
Il giorno dopo, domenica, Elio si leva presto ed esce dalla casa sulla chaussée de Wavre che lo ospita per il fine settimana; alle nove accompagnerà Alessandro dagli scout per la grande gita in bici nella foresta, intanto fa la spesa per la colazione al sacco, ma quando finisce non sono ancora le otto e aspetta seduto su una panchina vicina alla casa dove vive suo figlio. Infila la baguette nella borsa, prende quaderno e penna, si guarda intorno e dentro fino a quando si accorge che intorno è dentro: “Dolcezza di mattino mite e chiaro / il grigio fermo brezza solo a tratti / la domenica prima delle otto / un gran riposo tiene tutti a letto / alcune rare auto luccicanti / transitano piano, cocchi regali / di qualche Cenerentola in ritardo. / Il pane fresco il dolce al cioccolato / una tortora invoca resistenza / anche se il suo tubare in fiammingo / è diverso dal solito “re-si-sti”(1) / ma io resisto esisto metto a posto / e vado incontro a ciò che non conosco / come quando esploravo le grotte / bambino che neanche conosceva / l’allegria di uscire dalla notte.
(1) mia madre traduceva il tubare delle tortore in “re-si-sti, re-si-sti” e dava un considerevole ascolto a quell’incitamento animale”.
Elio sistema appunti sparsi presi di recente sul tema della critica letteraria e decide di rileggerli benché sia certo che non dicano nulla di cui non abbiano già trattato, e molto più compiutamente, gli specialisti. Se invece di riflettere con povertà di mezzi su argomenti che ignora, studiasse quanto serve per avere voce in capitolo, almeno, col tempo, potrebbe disporre delle basi per riflessioni originali. Ma come al solito preferisce arrangiarsi col poco di cui dispone; ha chiuso la strada agli immissari del suo lago, e adesso vuole solo occuparsi di metterne a frutto il contenuto. Questi stessi appunti, del resto, sono i suoi primi emissari, l’inizio di uno svuotamento che alla lunga lo lascerà asciutto; era previsto che così fosse ed è un bene che così sia. E li legge, i suoi appunti, con l’unico conforto di prendere almeno atto della propria vanità: “L’esperienza critica è come uno stato senza territorio. Non tiene mai conto del rapporto fra l’opera e i lettori, mira solo a stabilire preminenze in un ambito molto ristretto di specialisti. Ma la specializzazione dei critici, anche quella capace di un’ampia intelligenza del testo, alimenta solo le polemiche del giorno e l’inevitabile effimero dei canoni, e non ha un peso reale nel determinare i confini di un testo. È noto: i dominatori di oggi saranno rovesciati domani, e i reietti di oggi troveranno prima o poi chi riconoscerà loro un valore sfuggito alla presbiopia del tempo. Ebbene, in rapporto a tanta patente precarietà, con quale coraggio i critici ancora ragionano in termini di così spavaldo assoluto? Perché il dubbio, fondamentale in ambito filosofico, è sempre latitante nell’esperienza critica? Perché i critici non considerano mai che scelte operate in punta di ragione possano risentire, in maniera sostanziale, di pulsioni sconosciute che non sarebbero mai accettate da nessun metodo critico, e contro la cui sola eventualità gli stessi metodi in conflitto fra loro sono concordi nello sparare a zero? Uno scrittore sa bene che quando scrive viene scritto più di quanto non immagini perché sempre, insieme al voluto, si mostra anche l’involontario, o il diversamente volontario, se consideriamo la cosa non come uno spiacevole incidente ma come un’occasione per dire ciò che altrimenti sarebbe indicibile. Uno scrittore sa che nella migliore delle ipotesi il suo lavoro, una volta concluso, entra in contatto, in modo incidentale e imprevedibile, con mondi diversi che possono valutarlo attraverso un’ampia scala di giudizi variabile dal disgusto totale al più vivo apprezzamento; e il giudizio ricevuto dipenderà vuoi da cause inerenti al testo vuoi dalla sensibilità recettiva del lettore. Il testo concluso, insomma, sta lì ad aspettare che i lettori si decidano ad attivarne qualche potenzialità; impossibilitato a esistere di per sé e in modo singolare, acquista via via fisionomie diverse secondo una plurale partecipazione di lettori che lo completeranno di volta in volta secondo le circostanze dell’incontro. Il critico, dotato di strumenti di analisi più complessi del comune lettore, pretende di darne un quadro maggiormente attendibile di altri, ma pur impiegando sofisticati metodi di rilevamento, neanche lui si sottrae all’alea della circostanza. Ne ho sentiti, e di grandi, rimangiarsi, dopo un considerevole numero di anni, giudizi per i quali un tempo si sarebbero battuti senza risparmiarsi. Solo la piena coscienza della estemporanea relazione a due – propria di ogni lettura, dalla più ingenua alla più avveduta – permette di cogliere il testo nella sua cangiante operatività. Delle tante relazioni duali che conseguono alle numerose letture, ovvero della trasformazione che il testo compie quando diventa operativo nell’universo plurale della sua recezione, la critica non tiene mai conto. Di solito il testo vale solo in quanto capace di quell’unica relazione col critico che se ne occupa. I giudizi che derivano da questi incontri esclusivi sono comunque importanti, e vale la pena considerarli purché chi li ha formulati ammetta che si tenga conto della loro relatività. Non leggi pontificanti, quindi, è giusto aspettarsi dalla critica letteraria, ma uno stimolo per interpretazioni diverse che allarghino l’area del confronto attraverso quel ritratto personale del testo che è la versione del critico, tanto più vero quanto meglio saprà rinunciare in parte a se stesso per sovrapporsi ad altri ritratti così che l’insieme disegni una fisionomia forse sfocata ma abbastanza attendibile dell’opera; dove l’unica certezza, comunque, è che non sarà mai una fisionomia definitiva”.
Ora Elio vuole cogliere il segreto dell’armonia rara di un piccolo tratto della minuscola avenue Benjamin Jansen, che unisce la Passerelle all’avenue de Brouckere. A metà circa di quella stradina con casette a due piani, sul lato sinistro andando verso l’avenue de Brouckere, c’è un microscopico giardino dal quale svetta una ginestrella densamente fiorita, e un glicine che si arrampica contorto sulla facciata e, nel suo seguire la linea superiore delle finestre, lascia pendere folti getti di foglioline e fiori di un viola totale e indiscutibile. Il modo in cui, al sette di maggio, il viola del glicine e il giallo della ginestrella dialogano fra loro è di una tale sommessa maestosità che Elio elegge quell’angolo di quartiere a luogo privilegiato in cui sostare senza altra ragione che godere dei suoi benefici. Naturalmente evita di fermarsi in ammirazione per non creare imbarazzo ai proprietari di casa che non potrebbero certo immaginare di aver messo al mondo un così potente dispensatore di benessere. Quando passa lì accanto, e gli capita almeno un paio di volte al giorno, memorizza quello che vede e sente, e lo tiene dentro di sé, e immagina, e desidera, di poter fare sua, in altri modi, una scaglia di armonia simile a quella; nella quale, lo sa, è possibile racchiudere il senso stesso del vivere.
Per un po’ resiste ma poi lo ammette con furia: non c’è nessun segreto, nessun luogo degno di armonia, solo sozza, indigeribile costanza delle cose a permanere, così vere e visibili che avrebbe voglia di abbracciarle ma non può, non ne ha la forza e allora, allora, come preso… sì, come preso da… da… sì, come… sì, allora «sorelle» dice alle cose tutte «voi, sorelle, mie uguali, mie sodali, mie pessime e così più di me peggiori da sembrarmi uguali», ma non gli basta l’invocazione, è troppo pura, e chiara, troppo udibile, anche i topi la sentono nel migrare minuzioso delle zampette, i suoi topi di petto e di crine, gli abitanti delle sue corrosioni, l’acido dei respiri che scava, densità di abitudine affinché le mani non tornino ad aver cura; paura, piuttosto, la più nota delle sue emozioni, la specialità in cui eccelle, la sensazione di stancarsi, la voglia di mollare la presa, la resa come una formula da pronunciare sospirando di sollievo per il tanto che deve, e questo ridicolo restare a galla, ma insomma, sì, non è poi elegante sbracciarsi tanto per non cadere annegati, o si possiedono le doti giuste, e un’esatta vocazione al respiro, o meglio sarebbe sgorbiare la scena con un gesto deciso, darle l’assillo e poi dirle, come da tanto desidera fare, «basta, sì, basta, lo capisci anche tu che s’è fatto disagio, troppo, troppo, tanto che adesso mi tocca tremare, e tremo, e temo», e nel dirlo sposta il corpo dallo spicchio di sole in cui si beava e lo lascia lì dove, dei passi amati, rimangono solo sconfortanti tracce nello scompiglio della segatura.
Un giorno Elio, nel pieno di un confronto con se stesso, capisce meglio l’avversione che nutre per le scuole di scrittura, per le agenzie letterarie, e per la maggior parte delle case editrici a cui dedica nell’intimo un’estemporanea invettiva grondante enfasi: “(m)allevatrici di lettori da batteria, voi che promuovete testi scritti in traduttese e pronti per la sceneggiatura, voi che favorite l’invasione di cinema e tivvù nella letteratura, voi siete le seminatrici dello show, don’t tell che spinge chi scrive a fare delle parole le serve sciocche delle immagini più corteggiate, voi inducete branchi di scrittori acquiescenti a pascersi solo di anticipi sui diritti, di editing come volete voi e zitti, di rigare dritti e recensione garantita a vita, voi finirete per vostra stessa mano, ricche come siete di loglio, e povere di grano”, insomma, discorrendo con se stesso, a tratti anche in tono abbastanza animato, Elio mette a fuoco un aspetto cruciale della questione, e su questo fonda la sua polemica, la sua hidalga lotta ai mulini a vento, e non gl’importa poi di esagerare, di prestare il fianco alla ritorsione, lo presta volentieri, il fianco, anche se sa che tanto è perso, nessuna restituzione, nel migliore dei casi ne uscirà sfiancato, ma ne uscirà, è certo, anche solo per dire: “Cercate di capire, io sono per il primato della parola, e voglio, altroché se voglio, che le immagini arrivino a formarsi nella mente del lettore, ma come conseguenza di una scrittura non scontata (tempo e misura delle frasi, suono, ritmo, allusioni), tale per cui il lettore sia depistato da scorciatoie e show, don’t tell, e nel seguire una forma che inventa se stessa in modo nuovo, faccia il suo viaggio notturno nella lingua, forse anche scomodo all’inizio, ma che infine, quando riporta alla luce, offra in visione immagini che lo show, don’t tell neanche si sogna”. Con queste nocche di ragioni bussa Elio all’invano di un fortilizio che non si lascerà sormontare per quante alleanze ha messo a difesa, per le complicità che nutre nel rinforzo della conveniente cinta muraria, per come tutti, nella cittadella, siano in fondo d’accordo che aprire le porte e uscire farebbe troppo male, sarebbe proprio una scelta fatale, tanto poco dritta è ancora la spina dorsale, e sovrabbondante la terra che copre dissalata le altrui scale.
Il tosaerba automatico – Un robottino compatto bruca quatto quatto il giardino del vicino. Senza un ordine che non sia incidentale, va a destra, a sinistra, parallelo, in diagonale. Ora è fermo al confine fra l’ombra di un acero e il sole; da lontano, il prato ha un aspetto irregolare. A naso, sembra che al caso non si addica il tosare.
La notizia che Elio legge, battuta dalla associated press, è la seguente: “È probabilmente il miglior datore di lavoro del mondo, almeno per questo week end. Il miliardario cinese Li Jinyuan ha regalato quattro giorni in Francia a 6400 dipendenti per festeggiare i vent’anni di vita della sua azienda, la Tiens (multinazionale che spazia dal settore delle biotecnologie al turismo, dai servizi finanziari all’istruzione). In Costa Azzurra si è formata una vera catena umana come si vede dalle immagini: il gruppo di dipendenti è sbarcato prima a Nizza per poi trasferirsi dopo 48 ore a Parigi, solcando la capitale dalla Tour Eiffel al Louvre, per finire con una cena di gala da VIP. Per questo regalo sono stati prenotati 140 alberghi più 7600 biglietti di treno. Per l’occasione le ferrovie francesi hanno noleggiato due TGV speciali e dodici persone sono state messe a disposizione nelle stazioni per assistere l’enorme afflusso di cinesi. Li Jinyuan è stato ricevuto dal ministro degli Esteri Laurent Fabius al Quai d’Orsay con tutti gli onori e i ringraziamenti per aver scelto, come regalo così prestigioso, proprio la Francia”. La notizia è accompagnata da 16 fotografie che danno un’idea molto chiara della dimensione da parata che la cosa ha dovuto assumere per evidenti motivi di ordine pubblico ancor prima che organizzativi. I dipendenti indossano t-shirt e cappellini bianchi o celesti col logo della ditta, alcuni sono identificati da una sigla di lettere e numeri, altri da altro.
A colpire Elio, in particolare, due immagini: la prima, che mostra il magnate mentre sfila, su una jeep militare americana con tanto di autista in divisa e moglie sorridente dietro, seguito da altre jeep e camion militari abbastanza fuori luogo, quandanche l’armamentario non avesse un’origine diplomatica ma cinematografica. A dare ulteriore risalto a un evento già di per sé clamoroso, l’operatore televisivo, sulla destra, che con la professionale attrezzatura sollevata sopra la testa sottolinea quanto memorabile sia la situazione. La seconda foto è di un’eloquenza che ammutolisce, per come riesce a denunciare, da sola, l’artificiosa e inquinante dimensione dell’iniziativa del magnate cinese. Il parallelepipedo umano della comitiva, come si vede, è incompatibile con la struttura stessa della spiaggia dove forse nessuno di quei 6400 potrà mai scendere, se non parcellizzato in piccoli gruppi e a costo di attese estenuanti fra il primo turno e l’ultimo. Il loro elevato numero fa sì che i visitatori cinesi, da comparse di una vacanza-premio iniziata a Nizza per concludersi a Parigi, siano diventati i protagonisti inconsapevoli di un grande evento itinerante che, a ben vedere, ha molti tratti in comune con le più avanzate espressioni artistiche contemporanee.
Christo e Giuseppe Penone non avrebbero saputo fare di meglio, e nemmeno Gina Pane o Vanessa Beecroft, tanto per rimanere nel campo della Land Art e della Body Art. Dopo aver guardato e riguardato le 16 foto allegate alla notizia Elio, con una profonda tristezza per se stesso e per il tempo in cui vive, pensa a Mao Zedong e a quando, da giovane, nel corso delle tante manifestazioni a cui ha partecipato, scandiva slogan del tipo: “Mao, Lin Piao, rivoluzione!”. Era dunque quanto ritraggono queste foto che voleva dalla Storia inneggiando a Mao? E se non era questo, cos’è accaduto? Sbagliava forse lui a chiedere? Inneggiava, con aspettative giuste, alle persone sbagliate? Ha sbagliato Mao? Ha sbagliato Lin Piao? Sbaglia il magnate cinese Li Jinyuan? O non sbaglia di nuovo lui, ora, a dare peso a certe notizie che trova stupefacenti e dolorose solo in rapporto a un proprio passato vissuto in modo stupido?
Gli abitanti dei luoghi sconosciuti, gli ignoti coesistenti che col loro agire alimentano aspetti della vita coi quali Elio entra in contatto senza neanche sospettare le complesse mediazioni per cui quanto gli accade possa avere origine da quell’agire che ignora, l’idea stessa che esistano origini di ciò che accade, le persone che ama e che lo amano, le persone e le circostanze che col loro tendere a una qualche forma di verità lo aiutano a sapere (a ricordare) chi lui sia davvero, il grande tutto che lo allena a sentirsi un nulla senza restarne offeso, la vanità dell’intero universo messa in crisi dal minimo piacere, la rassicurante relatività di ogni cosa, la prospettiva della fine che si disgiunge dalla paura per lasciare spazio alla curiosità; non del dopo, certo, troppo aleatorio per suscitare interesse, ma del come lui saprà raggiungerla, le nuove prospettive che non sa immaginare, la cernita dell’essenziale, l’avere memorizzato la parola “lillà” dopo averla cercata invano per giorni e la conseguente possibilità di parlarne, l’avere appreso che il nome scientifico della ginestrella è Osyris alba e il compiacersi di quanto il termine sia allusivo, la musica dal tablet di Alessandro nuova come l’aria calda che entra dalla finestra spalancata su una dei più caldi undici maggio brussellesi, il frinire del giorno alle diciotto e trentanove, e l’indicibile, tutto il meraviglioso indicibile sfuggito ai petulanti ricercatori che avrebbero voluto catturarne la voce per puro istinto predatorio, e invece sta ancora lì, salvo e presente, col suo silenzio che tutto commuove.
La domanda si è posta quasi da sola a seguito di un nuovo episodio spiacevole legato al prendere sonno. Quando la sera si mette a letto per dormire, sotto il buio degli occhi chiusi Elio di solito ama rivedere immagini relative a episodi più o meno recenti della sua vita; tenendole sospese nella non-appartenenza grazie alla cancellazione del contesto, le fa galleggiare e roteare davanti a sé, quelle immagini, così da ammirarle in ogni loro aspetto, le assaggia col pensiero, e fantastica su qualche loro gratificante sviluppo. Ogni sera, insomma, fabbrica con sapienza lo scivolo migliore per sprofondare nelle quattro o cinque ore di sonno continuato che da qualche anno riesce a concedersi senza aiuti chimici. Ma a volte capita che nel pieno di queste manovre sia costretto a confrontarsi con la prepotente irruzione di immagini sconosciute, di sicuro estranee al repertorio del vissuto, e spaventose non per quello che mostrano, ma per il potere che hanno di attrarlo verso una dimensione la cui temibilità nasce dalla certezza che, se si azzardasse a seguirle, scivolerebbe senza rimedio nel non ritorno. Grazie alle sue esperienze con l’LSD, Elio ricorda come, nell’affrontare un “viaggio”, di fronte alla possibilità di esiti angosciosi sapeva sempre di poter contare sulla certezza che, una volta finito l’effetto chimico, sarebbe stato comunque restituito a se stesso. Con le estranee immagini del pre-sonno, invece, la paura di perdersi per il solo seguirle è totale e irrimediabile. Per questo, vinta l’inquietudine e la sorpresa, resiste all’impulso di vedere dove lo portano e non le segue. Ma il problema rimane: come sono entrate in lui quelle immagini? Scartata la possibilità che appartengano a esperienze dimenticate (anche l’oblio più tenace, se sollecitato, si apre, se non al ricordo, almeno alla sua sensazione), si domanda quanto sia possibile che in lui esista un piccolo immaginario non suo; e, nel caso, chi, o cosa, lo avrebbe lasciato lì, al solo scopo, pare, di tentarlo verso la follia della rinuncia a sé. A questo punto, davanti alla prospettiva che la risposta attenga al campo delle neuroscienze, si ferma. Senza escludere che una spiegazione possa risiedere anche in ambito psicanalitico.
L’alta velocità non è bella perché non permette, al viaggiatore, di vedere bene le ginestre fiorite quando il treno costeggia i greppi, ma solo le balle di fieno sui campi lontani dove la medica già ricresce e l’occhio a compasso percorre un semicerchio molto svelto, tanto che subito dopo torna a chiudersi nell’astuccio nero del pensiero.
A Torino, al Lingotto, al Salone del Libro, dove va a presentare la sua ultima opera, Elio considera quanto ingrato sia essere ospitati nello spazio in fondo di un vicolo cieco, e che a quelle condizioni “l’incubatore” non fa onore ai neonati editori, che schiaccia nella sconoscenza senza rimedio, nella condanna a restare invisibili proprio lì dove è regola il troppo da vedere.
“C’erano i libri c’erano i titoli / tutto lo sforzo umano raggrumato / nel solo attimo in cui il vano / racchiuso in uno scritto si dimostra / nudo intero irrimediabile”.
La casa in collina di Alessandra, Fosca e Furio, le rose esplose ovunque, i cani i gatti i diamantini, il merlo l’oca e gli ippopotamini che fanno da spessore sotto il vaso, gli uccelli di ferro a mezzo il volo, la cagna cieca, l’erba che cresce libera dovunque, il calore dell’incontro, gli amici in comune inaspettati, i sapori del cibo l’accoglienza, il letto ai piedi della scala, il sonno buono e con la luce spenta il chiaro del lampione esterno traccia la casa al dove dei risvegli, Elio apre gli occhi li chiude cambia fianco, non è stanco e non rinuncia al sogno, Fosca va a scuola senza che la senta, Ombra affettuosa lo mordicchia e lecca, fa colazione insieme ad Alessandra, Furio in accappatoio gli indirizzi, poi lo saluta come un caro amico, a piedi fino al bus con Alessandra, parlano fianco a fianco sui sedili, dopo la Dora Baltea lei scende, Elio prosegue fino a Porta Nuova, metro fino al Lingotto e poi a casa.
Deve comprendere, e infine dopo un lungo patire gli riesce, che con quanto ha iniziato a scrivere si appresta a fare qualcosa di grande e unico. Usa i pezzi sparsi dell’illuso continuum che insiste a chiamare vita e li mette insieme secondo un ordine geniale e disperato senza accorgersi che ormai, anche al solo nominarla, la vita rischia di suonare sinistra; per non dire di chi ancora abusa del suo nome in espressioni insensate quali “il senso della” e simili. Si appresta a dare corpo alla sua opera conclusiv, quella che, fatta saggia dalle molte strade intraprese e dai tanti sbagli commessi, ambisce a comprenderle tutte: non solo le già esistenti, che sarebbe poca cosa inglobarle in un’opera omnia, ma anche quelle che avrebbe potuto scrivere una via l’altra se la redazione di questa appena iniziata – che infine sarà abnorme e fagocitante – non richiedesse di occupare tutti gli anni, almeno venti, che a quella mente e a quel corpo rispondenti al nome di Elio Consalvi, è ancora concesso vivere. Opera premonitrice che naviga il tempo con la scioltezza della reversibilità ed edifica lo spazio nel rispetto della pazienza e dell’ascolto necessari al durevole.
“Che luce!” l’esclamazione è registrata davanti alla finestra di cucina e poi “scherzi a parte” domandano tutti “ma quando comincia la storia, quando si comincia davvero?”. È a questo punto che Elio per tutta risposta dice loro, proprio come Gesù fece con agli apostoli, “in verità in verità vi dico, guardate fuori anche voi e vedrete che la storia è già cominciata, la storia che è la mia e la vostra, e anche quella di questa luce diurna che ci accoglie”.
È sostanzialmente di pomeriggio (sporcare con gli avverbi è facile), e masse argentate di nuvole basse bombano il cielo sopra le case, voci umane dal cortile condominiale, sono tornati i bambini dopo una lunga assenza ma duole vederli così fuori luogo, i cani abbaiano da sembrare veri, mentre il loro latrare è dovuto al guardiano delle apparenze; quello che a certe ore trasmette le campane, le sirene, i clacson, registrati per tempo quando tutto era vivo, e non incombevano dubbi di fine e di silenzio. Ora è diverso ma forse è una fortuna che a niente e a nessuno sia dato interferire. Nel suo cupo aggirarsi, l’unico testimone sorveglia e al contempo chiede, a quanto vede, di mostrare, dell’altro, qualcosa di più.