Articolo quinto, chi ha i sodi ha vinto. La battuta è vecchia, ma il gioco è nuovo e la scacchiera è il pianeta. Per sedersi al tavolo ci vogliono appunto i soldi. Tanti. La puntata minima è da 100 miliardi di dollari. Tanti quanto l’Arabia Saudita si prepara a spendere per far partire il progetto di costruire dal nulla entro il 2035 una megalopoli da due milioni di abitanti e un hub logistico e manifatturiero per i paesi che si affacciano sul Mar Rosso. Si chiamerà Emaar Economic City e andrà a piazzarsi al centro di quello che secondo il capo del progetto Fahd al-Rasheed diventerà il più grande nuovo mercato emergente del mondo. E’ solo uno dei megaprogetti in cantiere nel Golfo, dove si sta pensando al dopo petrolio con i soldi fatti col petrolio. Capitali colossali sono in movimento per ridisegnare le grandi infrastrutture globali e dotarle di tecnologie avveniristiche. Cominciamo a vedere dove sono concentrati i soldi.
La quantità di denaro più importante del mondo è ammassata nelle riserve valutarie che la Cina ha accumulato in vent’anni di crescita basata sulle esportazioni. Mal contati, 4 trilioni di dollari. Il grosso è in bigliettoni verdi, più euro, yen e oro. Fino a poco tempo fa gli economisti si chiedevano cosa ci avrebbero fatto. In questi mesi sta arrivando la risposta. Ci aprono la nuova Via della Seta per cui far passare su ferro e per gomma le merci dirette a Ovest. Il piano, che è già partito con accordi miliardari con il Pakistan, comprende anche alta velocità ferroviaria, trasmissione e distribuzione di energia, autostrade in fibra ottica e, ovviamente, sviluppo economico per le città e i porti che saranno toccati. C’è anche un sotto-piano marittimo per collegare Cina con Golfo Persico fino al Mediterraneo passando per l’Asia Centrale e l’Oceano Indiano. I cinesi non si contentano di ripercorrere le orme di Marco Polo. Stanno aprendo una Via della Seta anche in Sud America, un’infrastruttura ferroviaria dalla costa atlantica del Brasile a quella pacifica del Perù per trasportare fino ai porti dei due oceani le commodity minerarie e agricole di cui i due paesi latino americani sono grandi produttori e la Cina affamata. Nei giorni scorsi la presidentessa brasiliana Dilma Rousseff e il primo ministro cinese Li Keqiang si sono impegnati a mettere sul progetto un chip da 50 miliardi di dollari.
Ma i soldi non li hanno solo Cina e Golfo del petrolio. Ce ne sono a montagne anche sulla West Coast americana, soprattutto San Francisco e dintorni, dove hanno sede i colossi high tech, come Apple, Google, Oracle o Microsoft. Qui parliamo di cash per oltre 500 miliardi, o mezzo trilione di dollari se si preferisce, detenuto dalla Corporate America tecnologica. Li tengono quasi tutti fuori dagli Stati Uniti per non farseli falcidiare dal fisco ma sono lì pronti ad essere spesi. Per che cosa? Se cinesi e arabi stanno progettando e costruendo l’infrastruttura fisica che cambierà la faccia del pianeta, vale a dire l’hardware, Google e compagni stanno progettando e costruendo il software: il sistema nervoso che servirà a far funzionare l’infrastruttura fisica e ad aprire il mercato globale a tutte le innovazioni che stanno nascendo e moltiplicandosi nell’Internet of Things e nella Sharing Economy. I colossi americani dell’high-tech sono una creatura nuova, possono lanciarsi in progetti forse più ambiziosi di quelli dello stesso Stato americano perché hanno disponibilità finanziarie enormi e non devono rispondere ai contribuenti di come spendono i soldi, ma solo agli azionisti. Sono un po’ come uno stato nello stato. In qualche modo somigliano alle Compagnie delle Indie di Inghilterra e Olanda ai tempi dell’impero e si misurano da stato a stato nelle controversie e nei contenziosi internazionali. Su diritto d’autore, tasse, antitrust e altri temi, è Google o Microsoft verso Unione Europea praticamente ad armi pari.
Il triangolo dei soldi che cambiano il mondo ha quindi tre vertici: Cina, Golfo e California. E se invece fosse un quadrilatero? E’ troppo presto, la Russia è ancora malconcia per le sanzioni e il calo del petrolio. Ma non per questo rinuncia a sognare progetti ambiziosi. Come quello di un collegamento ferroviario che dall’Europa arrivi addirittura proprio sulla costa occidentale americana passando per la Siberia, di cui Eunews.it ha parlato qualche settimana fa. A Putin, che a luglio presiederà in Russia il settimo summit dei BRICS, non manca l’ambizione e potenzialmente neanche i soldi. Che nel suo caso però non sono cash. Bisogna tirarli fuori dalle riserve immense di gas siberiano. E l’Europa? Anche qui certamente i soldi non mancano, ma non sono nelle casse degli Stati prosciugate dalla Grande Crisi. E non sono nemmeno tanto liquidi, ma cristallizzati nei patrimoni delle famiglie dopo un processo di accumulazione che dura da settant’anni. La vera sfida sarebbe riuscire a rimetterli in circolazione per far ripartire tutto guardando al futuro. Purtroppo in alcuni paesi, come ad esempio l’Italia ma non solo, molti vengono lentamente consumati euro dopo euro per sostenere generazioni di figli e nipoti che, certamente per colpa non solo loro, non riescono ancora a produrre più reddito di quello che consumano. In Europa i soldi ci sono, ma sembra che si spendano più per mantenere il mondo di ieri che per costruire quello di domani.