“Noi siamo una Commissione politica, e facciamo scelte politiche”. Presentando il piano dell’esecutivo europeo sull’immigrazione, la scorsa settimana, il vice presidente Frans Timmermans ha rivendicato con forza il criterio con il quale gli uomini e le donne di Jean-Claude Juncker intendono interpretare il loro mandato.
Timmermans ha detto la verità. Il piano presentato, che tira in largo per quanto è possibile l’articolo 78 comma terzo del Trattato sul funzionamento dell’Unione, è una forte scelta politica che imporrà ai governi dei Ventotto, forse per la prima volta, di uscire allo scoperto e prendersi le proprie responsabilità. Sino ad oggi si è navigato nelle nebbie su questo tema, con dei generici “nordici” che si rifiutavano di dare solidarietà ai “paesi del sud” che affrontano ogni giorno un tipo particolarmente drammatico di immigrazione. Si è fatto poco, in questi anni, praticamente niente, se non dare qualche battello e qualche uomo in più a Frontex, l’Agenzia europea per le frontiere (le “frontiere”, appunto, e non l’immigrazione, che sono temi evidentemente diversi). E’ vero, l’immigrazione è un tema che i governi, nello scrivere i Trattati, hanno deciso di tenersi per sé . L’unico terreno un po’ condiviso, ma in realtà solo per porre ognuno dei paletti alle proprie frontiere, è quello dell’asilo, che riguarda le persone bisognose di alta protezione, dove in sostanza si stabilisce che ognuno deve gestire chi arriva nel proprio territorio. Anche se lo fa solo di passaggio per raggiungere una famiglia che vive, e spesso lavora regolarmente, in un altro paese dell’Unione.
Non esiste solidarietà, non esiste una “funzione europea” dell’immigrazione. Ora la Commissione ha imposto ai governi di prendere posizione. Ora una proposta è sul tavolo, e ci vuole una maggioranza qualificata per approvarla. Il che vuol dire, parimenti, che ci vuole una minoranza di blocco per fermarla. Non c’è l’unanimità e, come ben evidenziano l’ex commissario agli Affari interni Antonio Vitorino (ora presidente dell’Istituto Jaques Delors) e il ricercatore dell’European Policy Centre Yves Pascouau, “gli stati membri ostili al progetto, come l’Ungheria, sono costretti a mettere insieme un blocco di minoranza se desiderano affossare la proposta”. Ci sono due cose, dunque, in questa decisione: la possibilità di vincolare gli Stati a delle scelte e l’imposizione a chi è contrario di venire allo scoperto. Questa è politica, questa è gestione dell’Unione.
Poi, certo, il sistema delle quote potrebbe non passare, la minoranza di blocco potrebbe formarsi, ma a quel punto ci saranno precise e individuabili responsabilità politiche e dunque una materia della quale discutere e sulla quale costruire una risposta che, pure, dovrà arrivare. Chi deciderà di allearsi con l’Ungheria che sta anche lavorando attivamente a reintrodurre la pena di morte, farà una scelta di campo evidente, nella quale si assume responsabilità presenti e future.
Se però la proposta passerà, ed ha buone possibilità per farlo (bisogna escludere dai conteggi di maggioranze o minoranze quei due o tre Paesi, come il Regno Unito che in questo settore hanno opt-in o opt-out) allora, per la prima volta, qualcosa sarà stato fatto, ed è qualcosa che potrebbe funzionare ma che, soprattutto, apre la strada a future evoluzioni sotto la parola chiave di “integrazione” delle politiche, prima ancora che delle persone. Sarebbe un successo.
C’è un altro aspetto però nel progetto complessivo, ed è quello dell’intervento armato (perché questo sarebbe) per fermare gli scafisti. Questo riguarda più i governi che la commissione, ed è ancora più difficile. Le Nazioni unite, come prevede Rosa Balfour, senior fellow del German Marshall Fund, molto difficilmente daranno il via libera ad un intervento armato sulle coste della Libia. Cosa farà l’Unione, che vuole agire, è stato scritto, “nel quadro della legalità internazionale”, in un Paese dove la “legalità” è al momento solo un insieme di lettere? Potrebbe, lo ha già fatto molte altre volte, agire da sola, trovando una forma di accordo con quello che potrebbe essere un simulacro di governo che tenta di controllare una porzione della Libia (ma anche qui, per il momento le possibilità di accordo sembrano essere minime, a meno di altre intese sottobanco per altri fini interessanti per i libici). Rischia di finire in un nulla di fatto dunque questo progetto di intervento a guida italiana, e sarebbe probabilmente la soluzione migliore. Oppure si troverà il modo di partire, con il rischio di causare vittime civili, di aizzare gli animi di chi vede gli occidentali come invasori. Di creare, insomma, un danno peggiore della situazione attuale. E di non fermare i barconi.