Bruxelles – La chiameremo Pilar. È una donna spagnola e ha già più di 60 anni quando perde il lavoro nel suo Paese. Senza impiego, come circa un quarto dei suoi compatrioti, non ci mette molto a rimanere senza un soldo in tasca. Sopravvive solamente grazie all’aiuto finanziario dei suoi figli. Finché un giorno decide di partite per il Belgio e sfidare il destino. Pilar trova così un lavoro come assistente in un’impresa di pulizie e ottiene la sua carta di residenza. Ma si tratta di un lavoro che richiede molto al suo fisico. La donna si ferisce alla schiena e le viene riconosciuto lo suo status d’invalidità. Tenendo conto degli anni di lavoro nel suo Paese d’origine e delle tasse pagate in Belgio, Pilar ha diritto a una pre-pensione di 980 euro mensili. Dopo un anno, però, questo versamento le viene improvvisamente bloccato. Pilar pensa che si tratti di un semplice errore amministrativo, ma si sbaglia. La donna riceve un avviso d’espulsione dal Belgio e la sua carta di residenza viene confiscata. Le vengono concessi 30 giorni per preparare le valigie[1].
Francesco, ingegnere di formazione, è stato licenziato in Italia all’età di 50 anni. Dopo diversi mesi di ricerche infruttuose per trovare un nuovo impiego nel suo Paese, l’uomo risponde a un annuncio di lavoro in Belgio. L’impresa che lo assume fallisce meno di un anno dopo. Dopo cinque mesi di disoccupazione, Francesco trova quindi nella cassetta delle lettere un ordine d’espulsione con il pretesto che sarebbe incapace di trovare un nuovo lavoro in Belgio.
Gli argomenti invocati dall’amministrazione belga per Pilar e Francesco sono gli stessi: “alla sicurezza sociale belga costa troppo mantenervi”.
Queste espulsioni sono degli incidenti? In realtà i casi di Pilar e Francesco non sono isolati. Fra il 2010 e il 2013, 5.913 cittadini dell’Unione Europea sono stati allontanati dal Belgio utilizzando dei pretesti analoghi. Fra queste persone ci sono italiani, francesi, olandesi, … Secondo la Ligue des Droits de l’Homme (Lega dei diritti umani), soltanto nel primi mesi del 2014 la Francia ha espulso 20.000 immigrati intra-europei perché avrebbero rappresentato un peso per le finanze dello Stato[2]. E molti altri Paesi europei seguono questa pratica, rispedendo a casa dei cittadini europei perché beneficiari di sussidi sociali.
Quanti sono in totale questi europei indigenti ai quali è vietato stabilirsi in un altro Paese dell’Unione? Avere dei dati precisi è impossibile. La maggior parte degli Stati si rifiutano di divulgare i numeri delle espulsioni per ragioni “sociali”, come se si trattasse di dati sensibili perché inerenti alla sicurezza nazionale.
Persino la Commissione Europea, che noi abbiamo cercato più volte d’interpellare, si è detta incapace di fornire delle cifre globali, rimettendo la “patata bollente” nelle mani degli Stati membri.
Com’è possibile tutto ciò? I Trattati non sanciscono la sacralità del principio di libera circolazione dei cittadini all’interno dell’Unione? Certo. Ma in realtà questo principio non viene applicato in maniera rigorosa a causa delle numerose eccezioni ben poco note al grande pubblico. Di più, l’articolo 48 del “Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea”, oggi in vigore, autorizza uno Stato a praticare delle eccezioni alla libera circolazione delle persone nel momento in cui queste stesse ledono “aspetti importanti del suo sistema di sicurezza sociale, in particolare per quanto riguarda il campo di applicazione, i costi o la struttura finanziaria”.
Fino a dove possono arrivare i Paesi europei seguendo questa politica repressiva? La Corte di giustizia dell’Unione Europea è chiamata a decidere su diversi processi che vedono scontrarsi gli Stati e i cittadini europei espulsi. A partire dalla realtà quotidiana si sta quindi creando una giurisprudenza europea, che precisa i criteri che “danno diritto” a un Paese di espellere un migrante intra-europeo. Il problema è che, con il passare del tempo, la Corte di giustizia tende a mostrarsi sempre più inflessibile nelle sue interpretazioni davanti ai cittadini chiamati con l’espressione “turisti sociali”. È evidente che nessuno lascia il proprio Paese per il puro piacere di farlo[3].
Ma in fondo, chi sono questi cittadini che rappresentano un “carico” definito “eccessivo” per gli Stati nei quali si rifugiano? Quanti sono? E qual è il costo reale di questi migranti europei per le casse degli Stati?
Secondo un rapporto della Commissione Europea, i migranti europei non attivi – compresi quelli presi di mira dagli Stati grazie alle leggi comunitarie – costituiscono una piccola minoranza della popolazione dell’Unione. Sarebbero fra i 3,5 e i 5 milioni, cioè fra lo 0,7% e l’1% dei 507,4 milioni di cittadini dei 28 Stati membri.
Nello stesso documento, la Commissione sottolinea che i migranti intra-europei porterebbero, in maniera generale, molto più agli Stati nei quali risiedono rispetto al loro costo in termini di prestazioni sociali. Basta questo dato per comprendere che il termine “turisti sociali”, oltre a essere connotato negativamente, impone un’immagine deformante alla migrazione intra-europea.
Messo alla prova dei fatti, il fenomeno dei “turisti sociali”, che vagano alla ricerca di vantaggi sociali e contribuiscono a mandare in rovina il loro Paese d’adozione, non è altro che un fantasma. Che ci sia all’interno della massa qualche approfittatore è senz’altro possibile. Ma non confondiamo l’albero con la foresta. La caccia al cosiddetto “turista sociale” non riabiliterà nessun meccanismo finanziario ora votato alla rovina. Essa fornirà soltanto il terreno facile a movimenti razzisti ed eurofobici che professano il credo “ognuno per sé”.
Nei mesi degli scandali finanziari Luxleaks e Swissleaks, i dirigenti dell’Unione Europea e degli Stati membri sarebbero molto più efficaci se usassero la stessa fermezza dimostrata nei confronti dei turisti sociali per attaccare anche la frode fiscale praticata dalle persone più ricche e dalle grandi società, che si traduce in alcune decine di miliardi di euro in meno di entrate a scapito della collettività. A titolo di esempio, il mancato guadagno derivato dal turismo sociale è una goccia nel mare rispetto a quello rappresentato dal turismo fiscale, che è diventato, sfortunatamente, un vero e proprio sport su scala europea.
Gli studenti dell’Executive Master in Comunicazione e politica europea de l’IHECS-Bruxelles (Institut des Hautes Etudes des Communications Sociales)
[1] El Pais, 30 marzo 2014.
[2] Ensemble!, n° 85, dicembre 2014. Articolo di Carlo Caldirini, dell’Observatoire des politiques sociales en Europe: “La liberté, de foutre le camp”.
[3] L’11 novembre 2014, la Corte di Giustizia del Lussemburgo, in risposta a un rinvio pregiudiziale posto dal Tribunale sociale di Lipsia (Germania) riguardo a una famiglia rumena privata delle prestazioni sociali, ha stabilito che «uno Stato membro deve avere la possibilità di negare le prestazioni sociali ai cittadini dell’Unione economicamente inattivi che esercitino la loro libertà di circolazione con l’unico fine di ottenere il beneficio dell’aiuto sociale di un altro Stato membro». Di fatto, questi cittadini possono essere espulsi se non hanno più le «risorse proprie sufficienti per poter rivendicare il beneficio del diritto di soggiorno» in quello Stato.