di Luigi Pandolfi
Uno slogan della Lega Nord di qualche anno fa era “Basta immigrazione, padroni a casa nostra!”. Nel frattempo il partito che fu di Bossi ha smesso i panni del movimento nordista che giocava alla secessione, ma non ha deviato di un solo millimetro dalla linea xenofoba che ha caratterizzato il suo agire politico da almeno quindici anni a questa parte. Tutt’altro: proprio su questo terreno è riuscito a ricostruire il suo profilo identitario ed a rifarsi una verginità, dopo gli scandali che l’avevano pesantemente colpito appena due anni fa. Il guaio è che la sua crociata anti-immigrazione, condotta con energia e sistematicità, anche grazie ai media, sta facendo sempre più proseliti nel paese, soprattutto tra gli strati popolari. Ed a rimetterci, anche questa volta, è la verità. Sono tutte rose e fiori? No, certamente. La questione è complessa, ma la realtà, suffragata dai numeri, è altra cosa rispetto alla propaganda.
Gli immigrati e l’economia italiana
Basta immigrazione, dunque, come se la presenza sul suolo italiano di immigrati (extracomunitari o comunitari provenienti da paesi della periferia, nello specifico), oltre a costituire un problema di ordine pubblico ed una minaccia all’integrità delle nostre tradizioni, fosse deleteria anche per l’economia, per i settori produttivi del Paese. Niente di più falso: gli immigrati sono sempre più indispensabili alla nostra economia, come tutti gli studi seri hanno evidenziato in questi anni. Stime recenti ci dicono che gli immigrati regolari in Italia sono all’incirca 5 milioni, l’8% dell’intera popolazione. Insieme producono l’11% della ricchezza nazionale e dichiarano al fisco circa 37 miliardi l’anno. Il 60% di essi vive e lavora al Nord, il 25% nelle regioni centrali e solo il 15% al Sud.
A sentire certi discorsi, sembrerebbe che queste persone siano tutte dedite a delinquere, a minacciare i nostri costumi, a preparare attentati terroristici: un esercito di alieni, in rapida crescita, che metterebbe a rischio il futuro nostro e delle prossime generazioni. E invece no: lavorano nelle case degli italiani, nei loro fondi, nelle loro fabbriche. Altri, una minoranza, producono reddito e gettito per l’erario col proprio lavoro autonomo. La concentrazione maggiore di lavoratori stranieri, prevalentemente di origine extracomunitaria, si ha nell’industria, circa il 37%. Più indietro il comparto alberghiero e della ristorazione (con il 14,5%), quello dell’agricoltura (con il 13%) e quello dei servizi alle famiglie (dove è stimata una presenza pari al 3,3%). Nel settore delle costruzioni, invece, la presenza di stranieri è ormai più del doppio di quella degli italiani. A questi dati va aggiunto quello relativo al fenomeno dell’autoimpiego, di quelli che si sono “messi in proprio” aprendo una partita Iva: l’8% dell’intera popolazione di immigrati regolari.
Ma a parte il contributo di braccia, gli immigrati sono davvero un peso per le casse dello Stato? Studi recenti dimostrano che la somma di gettito fiscale e contributivo riconducibile al lavoro degli immigrati in Italia ammonta a 16,5 miliardi di euro, a fronte di una spesa pubblica complessiva “legata agli stranieri” di 12,6 miliardi di euro (l’1,57% della spesa pubblica totale). 3,9 miliardi, dunque, è il tesoretto che gli immigrati lasciano ogni anno allo Stato e, di conseguenza, anche all’economia.
Una nuova “divisione del lavoro”
Nella maggior parte dei casi, gli immigrati svolgono lavori che non corrispondono ai propri livelli di istruzione: circa cinque occupati stranieri ogni dieci sono in possesso di un titolo di studio pari ad almeno un diploma, ma generalmente il proprio impiego afferisce a settori in cui è richiesto quasi esclusivamente il lavoro manuale. Insomma, la presenza straniera resta assolutamente residuale in settori nei quali trovano generalmente impiego i giovani italiani, come quello dell’informatica, della ricerca e dello sviluppo, dei servizi alle imprese, del terziario avanzato, mentre è molto estesa in altri comparti che ormai non costituiscono più lo sbocco lavorativo principale per le nuove generazioni. Questo, per sfatare un’altra leggenda metropolitana, secondo cui gli immigrati metterebbero a rischio le opportunità di lavoro dei giovani italiani. Invero, siamo in presenza di un’inedita forma di “divisione del lavoro” (rispetto alle forme storiche) tra italiani ed immigrati, come si evince chiaramente prendendo a riferimento alcuni settori.
Nell’ambito dei servizi alle famiglie – quelli che comprendono le varie forme di collaborazione domestica e di assistenza agli anziani, ai disabili, ai non autosufficienti, ad esempio – oltre l’80% della forza lavoro occupata è immigrata. Il ricorso a badanti straniere è diventato, nei nostri comuni, un fenomeno diffusissimo, una sorta di integrazione dal basso delle politiche di welfare garantite dallo Stato e dalle autonomie locali. Se prendiamo come riferimento la Lombardia, i dati relativi al 2007 ci dicono che le collaboratrici domestiche già allora sfioravano le 150 mila unità, otto ogni 100 pensionati. Attualmente si stima che in Italia le badanti (ed i badanti) straniere siano circa un milione. A seconda dei casi, il loro stipendio varia dai 700 ai 1.000 euro mensili, meno della metà, per lo più, di quanto le famiglie sarebbero costrette a pagare per tenere i propri congiunti non autosufficienti in strutture private, ospizi o case di cura. Eppure solo un terzo di queste lavoratrici beneficia di un regolare contratto, il resto è lavoro nero.
Ovviamente lo stesso discorso vale per altri settori, da quello minerario a quello zootecnico, fino all’agricoltura ed all’industria di trasformazione, che non hanno subito un tracollo in questi anni di crisi proprio per la disponibilità di manodopera immigrata, per lo più a basso costo, che, come è ovvio, fa dumping salariale e, quindi, maggiore competitività.
Gli immigrati ed i conti della previdenza
Se guardiamo invece la questione dal punto di vista previdenziale, viene fuori, inequivocabilmente, che l’apporto degli stranieri alla sostenibilità del sistema pensionistico italiano è ormai decisivo. L’età media della popolazione italiana è di circa 42 anni contro i 30 dei cittadini stranieri. I pensionati in Italia sono circa 10 milioni e mezzo. Tenuto conto che la popolazione italiana, al netto degli stranieri, è di 55 milioni di abitanti, il rapporto attuale tra pensionati e popolazione totale è di 1 a 5. Com’è stato fatto da più parti rilevare, su un numero totale di immigrati di circa 5 milioni, le pensioni di anzianità dagli stessi percepite sono circa 240 mila: un rapporto di 1 a 25.
È facile comprendere, in base a questi dati, che le pensioni degli italiani saranno sempre più appese al lavoro degli immigrati, che versano a titolo di contributi nelle casse dell’Inps più di 8 miliardi all’anno, tenendone in piedi i conti. Come per i contributi dei lavoratori precari italiani, affluenti nel fondo Gestione Separata, nondimeno, questi soldi sono indispensabili alla sostenibilità del sistema, ma non serviranno, se non per una minima parte, a garantire una pensione a chi li ha sborsati.
Gli affitti delle case
Ma gli immigrati, e questo poche volte si dice, oltre a puntellare l’economia ed i conti previdenziali del paese, contribuiscono ad integrare il reddito di una fetta non trascurabile di cittadini italiani, attraverso gli affitti salatissimi che pagano per le loro case (solo il 13,8% delle famiglie straniere ha una casa di proprietà). Studi recenti hanno rilevato come la soluzione dell’acquisto di una casa è ancora molto residuale tra gli immigrati, soprattutto di origine extracomunitaria, per via dei prezzi troppo elevati, ma anche per la limitatezza del ventaglio delle offerte. Pertanto, ad oggi, si stima che le case in affitto per gli stranieri siano più di 600mila in tutta Italia, la maggior parte concentrate al Nord.
Circa l’80% delle famiglie immigrate condivide l’alloggio con uno o più nuclei e soltanto il 21,8% delle famiglie occupa un appartamento singolarmente. L’evasione fiscale in questo ambito, come si può facilmente immaginare, è di notevoli proporzioni: tra affitti in nero o contratti registrati a cifre inferiori, oltre 3 miliardi e mezzo di euro all’anno di imponibile sfugge regolarmente al fisco. Il canone medio dichiarato oscilla tra le 700 e le 1.000 euro mensili, ma si stima che, generalmente, esso è più alto di quello ordinario finanche del 50%. In molti casi ai prezzi degli affitti decisamente più cari, rispetto a quelli del mercato ordinario, si aggiungono per gli immigrati altri fattori di svantaggio, come l’impossibilità di accedere a sgravi fiscali o a contributi pubblici a sostegno delle spesa per il canone. Ciò, proprio per le condizioni di irregolarità che spesso caratterizzano il rapporto contrattuale con il locatore. Si stima che solo il 15% degli immigrati abbia un contratto di locazione regolare.
Sfruttamento e povertà
L’altro corno della questione sono gli alti livelli di sfruttamento cui i lavoratori immigrati sono sottoposti, generalmente in ogni ambito economico e produttivo. Non è un’espressione retorica, ideologica, l’affermazione secondo cui i migranti costituiscono, per larga parte, nelle nostre società, una sorta di nuovo proletariato, nel senso letterale del termine. Proletari perché, oltre alla prole, non hanno niente all’infuori delle loro braccia. Lavoro nero e sottopagato, ritmi esasperati di lavoro in condizioni di scarsa sicurezza, rappresentano purtroppo una piaga troppo diffusa nel panorama lavorativo degli immigrati (prevalentemente extracomunitari ovvero comunitari di serie b).
Emblematica, ancorché non esclusiva, la condizione bracciantile nelle campagne del Mezzogiorno. Dalla Piana di Gioia Tauro al Tavoliere, dal ragusano alla Terra di Lavoro e oltre, è impressionante lo scenario che si presenta agli occhi dell’osservatore: sfruttamento, degrado, violenza, abbrutimento fisico e morale per migliaia di individui, minorenni compresi. Un mondo parallelo, quasi un’altra epoca, che solo in presenza di fatti eclatanti riceve l’onore dei riflettori.
Più in generale, se ci riferiamo al comparto agroalimentare, parliamo di una popolazione lavorativa di circa 300mila persone in tutta Italia, di cui una parte considerevole è costretta a lavorare per 2-3 euro all’ora per 12-14 ore al giorno, senza diritti, in balia dei caporali e delle mafie. Ci vuole molto a capire che la pressione securitaria, l’innalzamento del livello di tensione intorno alla questione immigrazione da parte di alcune forze politiche, e di una parte dei media, è funzionale allo sfruttamento, in regime di ricatto, di centinaia di migliaia di lavoratori stranieri?
Più in generale, parliamo di una popolazione complessiva segnata da alti livelli di indigenza. Le famiglie straniere che nel nostro paese vivono al di sotto della soglia di povertà sono il 33,9%, contro il 12,4% delle famiglie italiane, con un reddito medio annuo inferiore della metà a quello di quest’ultime.
Anche l’immigrato delinque
Immigrazione e criminalità, un binomio perfetto per la propaganda xenofoba. Ma i fatti come stanno realmente? Tutti gli studi effettuati negli ultimi 15 anni dimostrano che il cosiddetto “tasso di criminalità” fra gli immigrati regolari è pressoché uguale a quello che si riscontra nella popolazione italiana, l’1,40 contro l’1,23%. Come a dire: gli immigrati delinquono nella stessa misura degli italiani.
Ovvero, rovesciando i termini del discorso: sapete che nella nostra società delinquono anche gli immigrati? Una scoperta dell’acqua calda, verrebbe da dire, se non fosse che, proprio su questa problematica, si scatenano da qualche anno le tensioni più forti a livello politico e sociale. I numeri subiscono però una variazione, abbastanza significativa, se ad essere considerata è la popolazione degli “irregolari”: sono 8 su 10, generalmente, gli immigrati “irregolari” sul totale degli stranieri denunciati ogni anno. E però anche questo dato non dice tutto della situazione: molti dei cosiddetti “irregolari” colpiti da provvedimenti dell’autorità giudiziaria, in questi anni, hanno commesso “reati” legati alla loro stessa condizione di irregolarità, secondo quanto prevedono le norme, ancora vigenti, in tema di “reato di clandestinità”.
Diamo invece uno sguardo ai dati relativi ad alcune tipologie di reato che maggiormente creano, nell’immaginario collettivo, un rapporto di identificazione col fenomeno dell’immigrazione, incominciando da quello più odioso: lo stupro. Secondo un’indagine dell’Istat di qualche anno fa, il 90% degli stupri che si consumano annualmente nel nostro paese sono compiuti da italiani. Sempre secondo l’istituto di statistica, il 69% vedono protagonisti partner, mariti o fidanzati. Le mura domestiche costituiscono solitamente la location principale di questo tipo di reato. D’altro canto non potrebbe essere diversamente, vista la sproporzione tra popolazione di immigrati e popolazione italiana. Ma questo non costituisce un’aggravante a carico degli stranieri, piuttosto la dimostrazione che anche in questo caso non è possibile fare un’equiparazione tra immigrazione e delitto di violenza sessuale.
Per tutti gli altri reati di maggiore allarme sociale, a cominciare dalle varie tipologie di furto, negli ultimi anni si è avuto un calo considerevole delle denunce a carico di immigrati, regolari o irregolari che fossero (-31%). Stando ad una ricerca recente dell’Idos, comunque, tra il 2004 e il 2012 le denunce contro gli italiani sono passate da 467.345 a 642.992, mentre quelle a carico degli stranieri hanno fatto registrare un aumento minore, da 224.515 a 290.902, in termini percentuali +37,6% contro +29,6%.
Su tutto, in ogni caso, un dato inequivocabile: il tasso di criminalità degli stranieri è inversamente proporzionale a quello del numero di permessi che vengono rilasciati. Più alto è il numero dei soggiornanti regolari, più basso è il numero dei delitti che vengono commessi. Anche questa è un’ovvietà, che però molto spesso viene ignorata, prediligendo atteggiamenti di ostilità preconcetta nei confronti del fenomeno immigrazione, per ignoranza o cinico calcolo politico.
Non siamo affatto invasi, anzi
Veniamo al tema “siamo invasi dagli immigrati”. Un’analisi attenta, realistica, dei flussi migratori degli ultimi anni dimostra come la questione stia in termini assolutamente diversi da come ce la raccontano gli imprenditori della paura. Punto primo: l’Italia non è la meta preferita dei migranti. Secondo un recente rapporto dell’Istat, negli ultimi cinque anni i nuovi arrivi sono diminuiti del 41,3%. A questo dato va aggiunto quello relativo al numero di immigrati che ogni anno lasciano il nostro paese per altre mete europee (Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia, prevalentemente): si è passati dai 51mila del 2007 ai 126mila del 2013. In media siamo in presenza di un esodo che riguarda, ogni anno, circa 300mila stranieri. Un fenomeno vieppiù aggravato dalla crisi che attanaglia il nostro paese, dove più profonda si presenta la piaga della disoccupazione a fronte di una ridotta dinamicità ed inclusività del mercato del lavoro.
Poi ci sono i profughi, quelli salvati nell’ambito della missione della Marina italiana Mare Nostrum e gli altri che sono sbarcati negli ultimi mesi. Nel 2014 sono stati in totale 170mila. Ma questo è un altro discorso. Parliamo per lo più di persone che fuggono da teatri di guerra, che solo in minima parte hanno in mente di rimanere nel nostro paese. Diciamolo chiaramente: per via della nostra posizione geografica abbiamo dei doveri di solidarietà, ma non costituiamo la meta definitiva per gran parte di coloro che sbarcano sulle nostre coste. Lo dicono i numeri: tra i paesi della Ue-28 al primo posto per richieste d’asilo si colloca la Germania, seguita da Francia e Svezia. L’Italia si colloca al quinto posto, dietro al Regno Unito.
Nei primi due mesi dell’anno sono stati 7.882 i migranti sbarcati sulle nostre coste, il 43% in più rispetto allo stesso periodo del 2014, quando, comunque, si sfiorarono le 6mila unità. Il dato è rilevante, non c’è dubbio, ma non si può parlare certamente dei prodromi di un’invasione.
Conclusioni
Gli anni a venire aggraveranno notevolmente lo squilibrio demografico col quale già l’Europa è costretta a fare i conti. L’Italia in questa cornice non sfuggirà alla regola generale. Da studi fatti, pur prevedendo, entro il 2050, una nuova immigrazione di 40 milioni di persone, la popolazione totale dell’Europa subirà comunque una diminuzione di circa 7 milioni di unità. Non solo: nello stesso periodo si prevede che alla popolazione europea verranno a mancare oltre cinquanta milioni di persone in età da lavoro. Questa previsione ci dice che nei prossimi decenni l’economia dei paesi europei, Italia compresa, sarà sempre più immigrato-dipendente, più di quanto non lo sia già adesso.
Ecco perché, oggi come domani, il problema dell’immigrazione dovrà essere affrontato con lucido realismo, tenendo conto, oltre che degli aspetti umani del problema, comunque importantissimi, anche degli interessi materiali delle nostre società, delle nostre economie. Va da sé che affrontare la questione dell’immigrazione cavalcando paure, agitando fantasmi, non solo fa male alla nostra civiltà, ma anche al nostro futuro. Una politica responsabile su questo versante sarebbe quella che contempera una regolare, disciplinata, gestione degli ingressi nel paese, all’esigenza di immettere nel mercato del lavoro manodopera, specializzazioni, competenze che possono solo far bene alla nostra economia. Senza trascurare, quale principio di civiltà, il diritto dei migranti ad una vita migliore. Quel diritto che gli italiani hanno rivendicato e difeso in più di 150 anni di emigrazione, europea e transoceanica.