di Thomas Fazi @battleforeurope
Il 6 maggio, la Grecia – probabilmente attingendo alle casse delle amministrazioni comunali, come già aveva fatto l’aprile scorso – è riuscita a rimborsare, per il rotto della cuffia, il prestito in scadenza del Fondo monetario internazionale da 200 milioni di euro. Ma si tratta di poca roba rispetto alle prossime scadenze che si profilano all’orizzonte: da qui a settembre la Grecia deve rimborsare altri 3,5 miliardi all’Fmi (di cui 760 milioni il 12 maggio), 7 miliardi alla Bce e 600 milioni di interessi, nonché rinnovare quasi 10 miliardi di buoni del Tesoro (questi ultimi sono i meno problematici perché sono detenuti perlopiù da banche locali).
Sono soldi che la Grecia non ha. Se l’Eurogruppo e la Bce continuano a rifiutarsi di offrire liquidità al paese, esso sarà costretto a fare default, cosa puntualmente registrata dai mercati con l’aumento degli spread e la tensione sulle Borse. E a quel punto tutto è possibile.
Secondo vari analisti, si tratterebbe ormai di un esito quasi ineluttabile (o almeno così sembrava fino a qualche giorno fa, come vedremo). In base alla lettura che la maggior parte della stampa europea ed internazionale ha dato – e continua a dare – della trattativa in corso, questo sarebbe unicamente (o quasi) colpa della “intransigenza” del governo greco, che si rifiuterebbe di accettare le condizioni imposte dai creditori, nonché del fatto che il suo il suo ministro delle finanze, Yanis Varoufakis, sarebbe “un perditempo, un giocatore d’azzardo, un dilettante” (così sarebbe stato definito Varoufakis da alcuni suoi colleghi all’Eurogruppo di Riga). Secondo l’ex ministro degli esteri tedesco (nonché ex rivoluzionario sessantottino), Joschka Fischer:
Quando Syriza, il partito di sinistra guidato da Tsipras, è salito al potere nel gennaio di quest’anno, c’erano tutte le condizioni per un compromesso pro-crescita. Anche i pasdaran tedeschi dell’austerity – tra i quali la stessa Angela Merkel – avevano cominciato a rivedere le loro posizioni, alla luce degli effetti delle loro politiche sull’euro e sulla stabilità dell’Ue… Ma Tsipras ha sperperato questa opportunità storica, a causa dell’incapacità, sua e degli altri leader di Syriza, di andare al di là dell’attivismo antagonista radicale in cui il partito affonda le sue radici.
Insomma, a sentire Fischer, la Germania sarebbe addirittura stata pronta a dare una svolta “de sinistra” all’Ue ma il radicalismo di Syriza glielo avrebbe impedito. Se la cosa vi suona strana, tranquilli, non siete i soli. Paul De Grauwe – di certo non un estremista di sinistra – ha indirettamente risposto a Fischer con un articolo insolitamente esplicito pubblicato sul suo blog:
Oggi i politici e i media sono tutti lì a dirci che la responsabilità per il fallimento delle trattative è da imputare unicamente al governo greco, che continuerebbe a dimostrarsi irragionevole ed inaffidabile. Ma è vero l’esatto contrario. È l’intransigenza dei creditori e l’irragionevolezza delle loro richieste ad essere responsabile del dramma in corso… Le misure di austerità imposte al paese dal 2011 in poi hanno devastato l’economia greca. Hanno condannato milioni di persone alla disoccupazione e alla povertà, e hanno creato un’intensa instabilità politica, che è in parte responsabile per l’ascesa di Syriza. Insistere su ulteriori misure di austerità quando il fallimento di queste è sotto gli occhi di tutti non è ragionevole. È sorprendente che i ministri delle finanze dell’eurozona continuino a rivendicare una superiorità morale e a predicare ai greci di essere “più ragionevoli”. Per l’Eurogruppo, essere ragionevoli equivale ad accettare in toto le condizioni dei creditori, anche se queste si sono rivelate un totale fallimento. È ancora più sorprendente che gran parte dei media abbia accettato questa versione dei fatti.
Ma c’è di più. Secondo De Grauwe, non si tratterebbe di intransigenza ideologica o di miopia politica da parte dell’Eurogruppo – dell’incapacità, in sostanza, di rendersi conto che una strategia di questo tipo non può che portare il paese al default, con tutto quello che questo comporta – ma di una strategia cinicamente lucida che, al contrario, avrebbe come obiettivo precisamente quello di far fallire la Grecia:
I creditori continuano a tenere i rubinetti chiusi. Di conseguenza, i mercati finanziari hanno iniziato a speculare che il governo greco non sarà in grado di rispettare le prossime scadenze e sarà costretto a fare default. I tassi di interessi sono saliti alle stelle, rendendo il servizio del debito insostenibile e sottraendo al governo la possibilità di rifinanziarsi sui mercati. Trattasi di una classica profezia che si autoavvera: è la speculazione stessa dei mercati che sta creando le condizioni per un default. Ma questo è unicamente il risultato del rifiuto dei creditori di offrire liquidità al governo greco. È per questo che la Grecia potrebbe vedersi costretta a fare default. In altre parole, sembra proprio che i creditori stiano volutamente cercando di spingere la Grecia verso il default.
“A che pro?”, uno potrebbe chiedersi. De Grauwe non azzarda una risposta, che però non è difficile da ipotizzare: destabilizzare il nuovo governo greco, con l’obiettivo di farlo capitolare o ancora meglio di farlo cadere, ottenendo così un “cambio di regime” nel paese. Un colpo di Stato soft, insomma. La pensa così Mark Weisbrot, co-direttore dell’autorevole Center for Economic and Policy Research di Washington:
Ormai anche i media mainstream parlano apertamente del fatto che le istituzioni dell’Ue stanno utilizzando la minaccia di tagliare i fondi al governo e alle banche del paese per far capitolare la Grecia. Ma questa narrazione ignora un punto cruciale: mentre il governo greco non può far nulla per rimpiazzare i suoi partner al tavolo dei negoziati, gli ufficiali europei sembrano intenzionati a fare esattamente questo. E sta diventando sempre più chiaro che tutta la loro strategia è improntata proprio al raggiungimento di questo obiettivo… Il piano è danneggiare a tal punto l’economia greca nel corso del negoziato da far perdere consenso al governo e infine farlo cadere.
Come faceva notare Tonia Mastrobuoni in un recente articolo per La Stampa:
Una delle ipotesi cui si sta lavorando è un default senza uscita dall’euro, con l’introduzione di una sorta di mini assegni ad uso interno, combinato con “piano umanitario”, un programma di emergenza della Ue, che scongiurerebbe un prevedibile collasso delle banche e garantirebbe aiuti per la popolazione. Ma che presupporrebbe un cambio di governo o, addirittura, un esecutivo tecnocratico.
Ovviamente, le incognite legate a questo piano sono pesantissime, anzitutto quelle politiche, tanto che non si può escludere che Tsipras preferisca piuttosto tornare alla dracma che farsi commissariare o spodestare. Ma la novità, secondo la Mastrobuoni, starebbero proprio qui: nel fatto che, a differenza di qualche mese fa, nelle war rooms della Bce e dei ministeri delle finanze, ormai si discuta apertamente dello scenario peggiore. Alcuni ministri delle finanze hanno chiesto, già all’ultimo Eurogruppo, che si discuta un “piano B”. E Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, lo ha esplicitamente evocato: “Se uno Stato membro dell’unione monetaria decide di non rispettare i propri impegni e smette di pagare i creditori, un default disordinato è inevitabile”, ha avvertito, in un’intervista a Focus. Questa è anche la posizione del ministro delle finanze tedesco Schäuble. Meno dura è invece la posizione della Merkel, come è noto.
Questo era, a grandi linee, lo scenario fino a qualche giorno fa. Il 5 maggio, infatti, il quotidiano tedesco Die Welt ha riportato la notizia secondo cui la Merkel avrebbe deciso di tenere Atene nell’euro e di arrivare ad un accordo che permetta ad entrambe le parti di non perdere la faccia, mettendo così a tacere i “falchi” pro-Grexit, sia in Germania che all’interno dell’Eurogruppo (tra i quali figura lo stesso presidente del gruppo Dijsselbloem). Come ha commentato Carlo Clericetti sulla Repubblica, la “svolta decisiva” della Merkel – se questa effettivamente ci è stata – è probabilmente imputabile in buona parte alle pressioni di Draghi:
Spesso si è detto che la Bce è una copia della Bundesbank ed è indipendente da tutti i governi tranne che da quello tedesco. In parte è vero, ma c’è una contropartita fondamentale: quando Draghi spiega alla Merkel che la corda sta per spezzarsi e che è indispensabile prendere una certa decisione, la cancelliera gli crede, gli dà retta e gli garantisce la sua copertura politica. Per ricordare i fatti più importanti, è accaduto con il “whatever it takes” e con il varo del quantitative easing, provvedimenti fortemente avversati dai “falchi” tedeschi… Merkel e Draghi si dimostrano così i due politici più abili che si muovano sulla scena, un asse che costituisce il governo effettivo di questa Europa sbilenca e tecnocratica.
Staremo a vedere se le indiscrezioni del Die Welt si riveleranno fondate, e se sia veramente possibile trovare un accordo che permetta “ad entrambe le parti di non perdere la faccia” (anche i poteri della Merkel hanno dei limiti!). Un’intervista del presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, uscita giovedì 7 maggio su Le Monde, sembrerebbe comunque confermare che un cambio di prospettiva effettivamente c’è stato. Nell’intervista al quotidiano francese Dijsselbloem per la prima volta apre all’ipotesi di una ristrutturazione del debito greco. “La discussione sulla riduzione del debito della Grecia – ha dichiarato Dijsselbloem – non è un tabù. La sola cosa che è politicamente impossibile è la cancellazione del suo valore nominale. Tuttavia la discussione sul debito sarà tenuta solo quando il secondo programma sarà completato”.
C’è dunque una cauta apertura di principio degli europei sulla posizione dell’Fmi, che sarebbe favorevole ad una riduzione del debito greco oggi al 180,2 per cento del Pil, secondo le stime della Commissione europea. Ma da qui a raggiungere un accordo la strada è lunga, anche se Varoufakis dice che un accordo per sbloccare l’ultima tranche di aiuti da 7,2 miliardi è questione “di giorni o settimane”. Staremo a vedere. Non sarebbe la prima volta che Varoufakis annuncia come imminente un accordo che poi non si materializza.