Comincia in sordina, Elio, ma comincia. Dà forma all’umore più suo, alla capacità di sentire, nello stupido vento cittadino, il disagio di una pioggia che di lì a poco cadrà in modo ostile. Dà forma e luogo a quello che sembra uno strisciare di auto, un costernarsi dei passanti, e poi ascolta le parole che sgorgano in lui, sorpreso dalla loro certezza ineludibile: “hanno solo bisogno di aiuto”. E dice “hanno”, anziché “abbiamo”, come se la cosa non lo riguardasse, come se il suo tenersi a malapena in piedi e il reggere l’urlo coi denti, per non rimanerne travolto, lo esentassero dal dolore della via Tuscolana. È quasi la fine di aprile, lunedì, metà pomeriggio, e gli sembra che tutto manchi senza rimedio.
Anche stavolta è partito in modo respingente. Il solito problema dell’incipit. Chi comprerebbe un libro che accogliesse così il lettore? In realtà Elio non ha nulla contro un buon inizio, però lo evita apposta perché non gli piacciono quelli che lo esigono, i cacazibetti che pontificano nelle scuole di scrittura, i coatti dello show, don’t tell, del mo’ te lo dico io come si fa a scrivere un libro che vende. Ormai lo sa, il tema lo rende infantile, e forse farebbe meglio a muoversi in modo autonomo e liberarsi dei pregiudizi. Se cominciare basso e ruvido serve, bene, altrimenti tanto vale che dia il meglio fin dalle prime righe. Già, e se il meglio fosse questo contrastato attraversare uno stretto con, da una parte, la mortifera Scilla delle scuole di scrittura e dall’altra, in veste di Cariddi, l’imperiale supponenza dei critici militanti?
La verità, una delle tante, almeno, gliel’aveva svelata Maga coi suoi modi sbrigativi e la voce arrochita dalla provocazione. “Sai cosa penso?” gli aveva detto una decina d’anni prima, mentre si toglieva inesistenti fili di tabacco dalle labbra, lei che fuma solo col filtro. “A occhio e croce sono quarant’anni buoni che scopi, giusto? Hai tre figli e, a parte concepire loro, tutte le altre scopate immagino si siano concluse col tuo metodo preferito, il coitus interruptus. Bon, questo vuol dire che ti sei giocato il vero piacere, irrimediabilmente, e la testa anche, e alla lunga persino la virilità” e qui aveva riso maligna, forte di una confidenza intima che Elio era stato così improvvido da farle quando credeva che Maga fosse un terreno capace di rendere sterili i semi cattivi anziché lasciarli germogliare in pettegolezzi.
Ha tracciato un primo profilo delle parti avverse, profilo vago che procede a tentoni verso il preciso: era tutto quello che poteva fare. Uno sforzo di verità che non lo salva dall’assillo di soddisfare le urgenze creative con forme così sfuggenti come le parole. Perché questo almeno lo sa: anche se ritenesse di aver trovato le più giuste, le più adatte alla forma del racconto, prima o poi sarebbe obbligato ad ammettere, testo alla mano, che il tradimento di ogni parola supera di gran lunga la sua fedeltà. Allora l’impulso è di tornare alla finzione, capace com’è di accogliere tutto il vero che sempre l’accompagna; forse perché in fondo ogni finzione, per sua natura, è composta da tante parti di vero assemblate fra loro secondo un altro ordine. È d’accordo con questa prospettiva ma solo a patto di attenersi a quanto scrive, in proposito, Alessandro Ricci: “Qui bisogna parlare chiaro, fingere”.
Quel giorno Elio aveva iniziato a leggere Neve di primavera, di Yukio Mishima, e aveva anche buttato giù dei versi con un inizio e una fine: “Era un’ìmpari brevità / tra sole e ombra / luci dalla città, molte fessure / e niente che attraverso le colmasse, / pasturavano i lecci / raso il cielo, onde / di fronde dure di nerezza / durante il viaggio / in bordo di quartiere / lì c’era stato a battiti sinceri, / a chi dunque aveva rubato / in fede l’eccezione la freddezza?”. Poi, solo l’intento delle foglie nuove sui platani, già stanco di osservarle come se avesse presente tutte le altre volte in cui s’era dedicato con pari attenzione alla natura e ora, di colpo, la cosa non gli sembrasse più degna di nota. Seduto negli scossoni del 3 diretto verso viale Liegi, considerava lo sporco dei grandi tronchi; a sguardi sbiechi saggiava la solidità dei rami slanciati in alto per decine di metri. Protetto dal carapace del tram si domandava quale danno avrebbero prodotto se fossero caduti sulle carrozze. Dalla contemplazione di un tempo, in grado anche di ispirare poesie per assolvere gli alberi che cadono (“Ogni cosa che ha peso può schiacciare / ogni cosa ch’è in piedi può cadere, / nel tendere al cielo anche gli alberi / sviluppano le loro debolezze / quel punto critico quella rottura / conforme alle leggi di natura, / non sono semidei sono alberi, / soggetti al caso, degni di disgrazia, / se hanno una coscienza vegetale / di certo non somiglia a quella umana / che pure, quanto a uccidere, distingue / la volontarietà dall’incidente”) , alla sfiducia di ora: bel progresso! A un certo punto si smette di amare. È così che si rimane soli.
Infine Elio ha cominciato, anche se a costo di trascurare quello che c’era prima. C’è sempre un prima che viene escluso, quando si inizia, non si può partire da zero. Quanto a lui, ha un conto aperto con il sapere. È stato avaro nell’apprendere, e ha spesso recriminato per un cattivo impiego del tempo, per debiti considerevoli nei confronti dello studio. Ma sbagliava a recriminare perché la conoscenza non è determinante ai fini del sapere; sembra un controsenso, eppure è così. Sapere non dipende dal conoscere. Sono molte le conoscenze approfondite e vaste che mostrano di sapere ben poco. Libri su libri stanno lì a testimoniarlo. Specialisti capaci di disegnare mappe della conoscenza dove persino i fili d’erba sono riportati; cultori della materia cui manca solo quello che ancora non ha trovato luogo in nessuna mente umana, eppure non sanno. Conoscono ma non sanno. Ha letto libri dove questa contraddizione è palese, però non ha prove per sostenerlo, né intende entrare nelle malaticce arene del pensiero dove le buone ragioni di chi conosce senza sapere si sfidano a duello. Sa solo che è così. Del resto la faccenda non assumerà un rilievo pubblico, non sarà mai un Savonarola, lui, o una sua labile copia. L’argomento gli serve per fare i conti col dare e l’avere di quanto è stato alla sua portata; sono miserrimi conti privati che nessuna pubblicità potrebbe nobilitare.
“A vent’anni la bellezza di una ragazza ha superato il periodo di massimo fulgore, eppure Satoko non era ancora sposata”. Cominciava presto la vita nel Giappone di inizio Novecento, e altrettanto presto si apriva al declino, almeno nella visione del diciottenne Kiyoaki, di cui si racconta in Neve di primavera. Pagine fitte di dettagli minuti su un mondo scomparso. La natura protagonista (la visita agli aceri, l’inumazione del cane annegato, l’abbondanza di metafore floreali). La forza della tradizione nei rapporti familiari e sociali. La superiorità estetica del giovane Kiyoaki le cui mani delicate, dalle lunghe e sottili dita, si affannano nell’indecoroso compito di sciogliere un rozzo nodo per liberare la barca dall’attracco e raggiungere il gruppo delle donne. Remerà con vigore Honda, l’amico del cuore, testimone e garante della superiorità di Kiyoaki alla cui ombra-lezione farà il suo apprendistato nella vita. La cerimonia di esistere. Almeno nella casa di Matsugae Kiyoaki dove il capofamiglia è un Marchese di estrazione samuraica. Un quadro perfetto, quanto a eloquenza, dalla cui contemplazione Elio esce con qualche domanda: in quello stesso periodo, le classi più povere come vivevano? Esiste una letteratura nipponica che racconti di loro? Finora ha letto solo una quarantina di pagine; magari più avanti incontrerà una risposta. L’incontro avviene a pag. 55, dove si elencano le conseguenze del peccare: “Chi pecca attraverso un’azione, nella prossima vita nascerà come albero o erba, chi pecca attraverso la parola come uccello o animale, e chi attraverso la mente nascerà in una classe sociale bassa”.
Più esperisce la lettura, Elio, e più sa che il compito del lettore matura gradualmente a seguito di un lungo processo di crescita che parte dal piacere giovanile e irresponsabile, per spingersi, in modo sempre più deciso, verso la consapevolezza di avere un grande ruolo nel partecipare al completamento dell’opera. Si arriva così al piacere maturo e responsabile. Come il traduttore trasporta il testo da un universo linguistico all’altro, ogni lettore, nelle vesti di micro-coautore, lo traduce verso le innumerevoli declinazioni di senso che il testo da solo potenzialmente contiene ma che rimarrebbero inespresse senza l’apertura di quella chiusa (la lettura) grazie alla quale una parte dei suoi costituenti fuoriesce dall’alveo della forma ed entra in contatto col bagaglio percettivo del lettore; incontro da cui generano realtà di varia natura (anche equivoche e inquinanti, lungi da me ogni idealismo ) i cui effetti sono indefinibili ma innegabili. Per questo occorrerebbe leggere con la stessa attenzione che si riserva allo scrivere; nella consapevolezza che, come per lo scrivere, leggere equivale a disporre di creta da modellare e poi soffiarci sopra per offrire più consistenza al mondo creato. Sembra una partecipazione priva di effetti sul disegno della realtà – e nella prospettiva di voler ottenere chissà che, di sicuro lo è – ma se si vuole semplicemente partecipare con lena e gusto all’insensato progetto collettivo di svuotare il mare con una conchiglia, ha invece una grande importanza.
Pomeriggio del 13 aprile col tempo che sembra quasi estivo, Elio ha visto un film al cinema Adriano, Into the woods assieme al figlio Alessandro che esce dal cinema sconcertato per le tante morti inattese, per come il lieto fine si smentisce quando già sembrava cosa fatta. Dopo, mangiando il gelato in via Cicerone, ne discutono a lungo, insieme vi ragionano, Alessandro scopre cose oltre il dispiacere, e per questa disposizione a trasformare il proprio giudizio a seguito di un ragionamento, ora Elio sa che suo figlio è cresciuto. Sul 186 per San Giovanni, bus nuovo, seduti, panorama del Tevere in luce di tramonto, Alessandro guarda Roma da dietro il finestrino, allora Elio ne scrive perché quella città, ora, si arricchisce dello sguardo di suo figlio (gli sguardi altrui aggiungono sempre qualcosa al proprio vedere): “Roma ritratta in punta / di matita, Roma la vita / ha dato e vita vuole / Roma cui duole il piede / nella scarpa, Roma triarca / e insicuro ospizio, vizio / che non si perde per distanza / morte che avanza cupa / e lupa strappa, mappa ritorta / che non sbaglia strada / ma la incolla al punto di partenza / debole scienza in aria / di vacanza per tutto il verde / che morde le mura, Roma / sicura come l’odio suo / l’antico custodito in prepotenza / la struscia il sole l’acqua / la tormenta ma lei fa finta fa / la finta tonta, la sponda / che il rudere non bagna / la lagna miscredente / e la carogna”. Poi a San Giovanni proseguono a piedi. Venti gradi, si chiude in tepore la giornata. Aspettano ai semafori rossi anche se la strada è libera e gli altri passano. Per insegnare le regole ci vuole costanza. A forza di esempi Alessandro le ha imparate, e assieme a lui Elio si sforza di non dimenticarle.
“Quanno si chiude è clauso, non persiste, tu donche non t’adirari di chilli mali d’autri, beni l’avisti i toji da manducarli che te spacca li denti, tanto vivisti, e bofferi a li venti n’inventasti e de nun chiagnere d’arie lo sapivi ma durò troppo a costi il malaccerto”.
“Minchieme a futte, carovigni e sbanne, ma nun te sagghimari dint’u feli, ca si m’attost’a fugliaghe e pigghiari te curro ’n capa e schiave a mi pensari tuttu te fasso fa’ pe’ mi plaseri”.
“Piccole parti del discorso si fanno da sole. Asole che non hanno soccorso led prati ciclope”.
E così anche lui ha sperimentato. I tre piccoli paragrafi in corsivo ne sono un esempio, e se nei primi due è chiaro il lavoro sulla lingua, tirata per allusioni verso dialetti inventati, del terzo si permette di suggerire la chiave di lettura. Il senso della prima frase, assertiva, “Piccole parti del discorso si fanno da sole”, viene destrutturato dalla seconda frase “Asole che non hanno soccorso led prati ciclope” che, speculare alla prima, ne scioglie uno a uno i termini, vuoi in assonanze approssimative (“Asole” per “da sole”, “che non hanno” per “si fanno”, “soccorso” per “discorso”), vuoi in veri anagrammi, perché “Piccole parti del” si riflette, anagrammato, in “led prati ciclope”), ha cercato un linguaggio NUOVO (o almeno spera che lo sembri), ha lavorato come un cane sul significante, ha giocato di parodia e citazioni (nel terzo paragrafo non cita nessuno in modo esplicito ma si riferisce alla sterminazione del linguaggio che Baudrillard vede nel primo De Saussure e di cui tratta in Lo scambio simbolico e la morte) per scoprire infine verità che se fossero divulgate si rischierebbe l’afasia sociale; o, peggio, una stagione chissà quanto lunga di guerre del silenzio, di musi lunghi, di facce ingrugnite, di file alla Posta che non finiscono mai. Allora, piuttosto che assaltare la cittadella della comunicazione egemone (i suoi fortificati luoghi comuni la difendono fin troppo) Elio scivola, non visto, lungo il malinteso degli artifici in voga e ne sfuma la gravità inserendo, nella fede equivoca che il dettato dominante esige, l’eresia di controsensi la cui insidia è mascherata dalla giocosità. Strategia entrista che non cerca di minare con la forza lo statuto del potere ma prova a ingannarne la sostanza per modificarla proprio come sarebbe stato possibile attraverso una conquista violenta; strategia che fin qui, però, si è mostrato inefficace. Elio, dunque, sarà il generale Piga del linguaggio, il militante fantasma dall’aria costruttiva al quale per fiducia, prima o poi, saranno affidate le chiavi della stanza dei bottoni e che, una volta lì, saprà bene cosa fare. Ma ora si scusa, deve sparire per portare a termine la sua missione, e rinuncia all’io proprio dicendo “io”; sa quanto importante sia passare inosservato, e cosa sfugge meglio di una rinuncia che indossa i panni di cui si è spogliata? Perciò ascoltiamolo con attenzione: “In verità in verità vi dico, cari avanguardisti, compagni di battaglie inesauste, prima di sparare a zero su un grigio travet della scrittura pensateci due volte; potreste colpire me, o quanti, come me, sono vostri alleati nel progetto di penetrare il cuore bloccato della lingua per salvarla dall’accidia. Perciò aguzzate lo sguardo quando state per fare fuoco, dietro la vittima designata potrebbe celarsi una talpa che scava” (va da sé che nel “generale Piga” Elio ha nascosto, anagrammato, il generale Giap; ricordate la guerra del Viet-Nam, Võ Nguyên Giáp? Sì, proprio lui).
Ma la sera, alle ventuno e cinque su La Effe (che nel televisore di Elio sta al canale 431), la visione de Il figlio, dei fratelli Dardenne, lo riconcilia col mondo attraverso la dura esegesi del dolore: sociale, individuale, esistenziale. I tempi narrativi che sembrerebbero anti-cinematografici (stando agli stereotipi hollywoodiani), invece producono intense relazioni nella dialettica finzione/realtà, dotano il realismo espressivo di una patina che protegge la finzione dallo smacco di non poter competere col modello ispiratore. Ne consegue una para-realtà dove anche i buchi cronologici, che servono al racconto per scansare il pletorico, non lasciano debiti nell’esperienza percettiva dello spettatore; che li coglie e vive come se avesse comunque partecipato della vicenda anche laddove non se n’è dato conto con le immagini. Il cinema dei maestri, considera Elio, insegna a scansare la mediocrità; più si va alla loro scuola e meno si sarà disposti a tollerare la rozzezza delle scorciatoie. Le trovate di cui abbonda la TV, l’accontentarsi, l’imitazione senza spessore, gli intermediari che non sanno dilatare il percorso espressivo né arricchirlo di prospettive insolite; ecco, se nel cinema tutto questo non fosse più alimentato dalla stanca disponibilità degli spettatori di bocca buona, potrebbe regredire fino a seccarsi alla fonte; la mediocrità imperversa perché sostenuta da adepti.
Elio ha ripreso un gesto di tanto tempo fa, sospeso per stanchezza, per sfiducia nella sua importanza, per perdita di senso nel partecipare all’esistente. Il gesto è semplice: portare una sedia sul terrazzo della camera da pranzo, la mattina, e sedersi a lavorare al sole (leggere, scrivere, correggere, rivedere). Nelle pause del lavoro si guarda intorno: i platani già verdi di piazza Ragusa, le acacie di via Taranto pronte a fiorire, l’esterno della porta-finestra scrostato e fessurato, le sue caviglie segnate dalle varici; nel vaso, fresie date per morte e invece fiorite dopo due anni di stasi. Non ci sono le aspettative di un tempo, che rendevano il luogo e le ore meravigliosi, ma c’è Alessandro, che subito condivide lo spazio. “Mettiti il cappelletto che il sole scotta”, e di lì a un attimo torna fuori, cappelletto verde con la visiera, e i suoi Little Pony che allinea al sole, e si stupisce che sotto tanta luce i colori splendano come mai. Comprensibili tempi della vita. Il passare come atto certificato da segni palesi: la presenza di un figlio che ha quasi dieci anni, il crescere degli alberi, il deteriorarsi del legno che non riceve cure, i modi in cui il corpo impara a deformarsi. Isole di giustizia nel caos. Attenzioni alle quali non bisogna rinunciare. Preziosità del resistere.
Sul treno diretto in Sabina legge …yellow line, appena visibile accanto al simbolo del divieto e pensa che l’uomo (nel senso di essere umano) non deve superare la linea gialla, come impone biblicamente il cerchio rosso con la rossa barra obliqua pronta a bloccare l’essenza nera dell’uomo, tracciata con filiformi braccia tronco gambe e testa, che prova a superare la linea gialla di sicurezza. Linea gialla di privacy alla posta, in banca, alla ASL. Linee gialle di parcheggi per l’handicap, di spazi riservati alle fermate dell’autobus. Macchie gialle delle rape in fiore sui campi verdi di aprile. Gialle sfumature su profili di montagne remote. Leggere un giallo di questi tempi. La t-shirt e le scarpe da barca gialle delle lontane estati aretine. Sulla t-shirt era scritto in bianco, con caratteri geometrici sotto il profilo di geometrici grattacieli, Summer in the City, pantaloni bianchi e la sera, all’occorrenza, giacca leggera color grafite. Avere quarant’anni nello splendore di colori su di sé, nella natura intorno, eterni ragazzi esentati dal crescere alla moda, solo invecchiare, a tratti farsi male, scamparla dai tanti pericoli, mangiare la vita senza altra saggezza che i sonni persi, la stanchezza vinta, e la passione d’amore accesa, in cerca di un corpo a cui offrire il proprio, non per sempre, per il tempo giusto; tanto, che saranno mai pene e sofferenza se poi ti aspetta la gioia dell’incontro? Orti coi rampicanti legati, la terra smossa sotto i carciofi, papaveri sui bordi e mondi freschi, orti coi frutti pronti a maturare, sapienza di cancelli, tutori, canalette, orti di casalinga geometria.
Cammina assieme all’amico editore per colline che non conosce ma che consuonano con altre amate. Le mani, l’eleganza di invecchiare, la nostalgia dei tempi futuri, del futuro conformato ad arte. Riconoscersi nel tatto dei fiori, piedi affondati nell’intrico d’erbe, nomi comuni solamente nomi, uomo gramigna papavero formica, neri di freddo i tronchi degli olivi, la valle a mezzogiorno fino a Roma che non si vede perché sta nascosta. Poi torna a casa col dubbio dei vestiti: quanta poca fiducia nel caldo a vedere le giacche pesanti e i maglioni che molti si ostinano a indossare. Al 21 di aprile si può dire che ormai la primavera s’è assestata; guarda gli orti prima della stazione Nomentana e nota che hanno pietre sopra il coltivato per impedire ai germogli di spuntare con troppa forza, tutto ascende in pieno d’energia, il cielo chiama a sé tutte le piante, è doveroso crescere fruttare, “ché il verde non sa niente dell’autunno / e tanto vale / che varchi il guado sentendosi immortale”. Il giorno dopo scrive una lettera: “Miei cari, è il ventidue aprile e il sole sta nel cielo sereno delle dieci e diciannove, benché l’orologio segni l’ora in più della convenzione legale. A dire il vero fa molto caldo, tanto che tengo in ombra la caviglia destra dove ho avuto la flebite. I platani di piazza Ragusa sono così pieni di foglie da nascondere, col loro boscoso verde, metà dei palazzi di fronte, tutti restaurati a colori pastello intorno al solo che s’erge fiero in rosso pompeiano. Non capisco come mai i motori urlino così tanto, e perché la parziale sordità, che molto mi complica la comunicazione verbale, non mi protegga da questa molestia; anzi, direi che quasi la peggiora. Le acacie di via Taranto hanno i fiori e il giorno ronza come un alveare. Plana un gabbiano sul largo della piazza e il sole è talmente caldo che se non mi bagno la testa divento scemo. Ah, se il clima di Roma non fosse così estremo col caldo! Se il sole imparasse a mischiarsi al fresco dell’aria come avviene in Nord Europa! Ma se accadesse una cosa del genere Roma, di colpo sovrappopolata a seguito del meraviglioso clima, diventerebbe ancora più invivibile, e tutto il bello dispensato dalla natura aleggerebbe come una maledizione sul sottostante brulicare di occasioni mancate, di promesse non mantenute”.
Passa qualche giorno e scrive un’altra lettera: “Miei cari, dovete sapere che la loro vita (non spiega a chi si riferisce, ndr) era senza segreti. Entrambi un po’ deboli di udito, si parlavano a voce talmente alta che i vicini non potevano fare a meno di ascoltarli, e siccome a sentirne i discorsi parevano persone proprio per bene, non c’era aspetto del loro quotidiano che suscitasse scandalo o riprovazione; sicché un po’ alla volta, annoiati, tutti smisero di ascoltare. Così nessuno fece caso alle invocazioni di aiuto che precedettero, per un tempo di incalcolabile lunghezza, l’affondo del coltello nella gola. Fu il silenzio seguìto al delitto ad attirare di nuovo l’attenzione dei vicini”. Si sente un piccolo essere che ne prende molte più di quante non ne dia; ultima sua risorsa, accettare la disparità delle percosse per salvarsi dalla propria ferocia, che considera la sconfitta peggiore. È sera tardi quando Elio appunta un breve elenco di cose imminenti che prevede per sé: alzare gli occhi dalla scrittura e notare, sul monitor del pc, i quattro zeri allineati che segnano la mezzanotte; guardare distrattamente a sinistra e leggere, sulla costa di un libro: Vittorio Sereni SENTIERI DI GLORIA 96 PICCOLA BIBLIOTECA; grattarsi la spalla con la mano infilata sotto maglietta e camicia; credere di udire un intenso canto di uccelli ben sapendo che si tratta di acufeni; decidere di rileggere Barthes in ordine cronologico, da Il grado zero della scrittura (del ’53) fino a L’ovvio e l’ottuso (uscito postumo nell’82) con divagazioni in Sarrasine, di Balzac, prima di S/Z, e in Stile Giappone, di Gian Carlo Calza, prima de L’impero dei segni. Da ultimo, prevede di essere così stanco, a mezzanotte e ventidue, che decide senza indugi di andare a letto.
Ammira quelli che si battono nel circo della lotta quotidiana per raggiungere posizioni di prestigio, che per impazienza, a quarant’anni, fanno conti da ottuagenari e giudicano l’altro in modo tanto ferreo quanto clementi sono con se stessi. Ammira chi ha una così intensa fame di vita da mangiarne dosi future perché sennò non riesce a colmare in modo adeguato il suo vasto presente (aveva scritto “largo presente” ma poi ha cambiato perché lo faceva pensare a “largo Preneste” – potenza degli anagrammi! ). Ammira le strategie e i calcoli che piegano un po’ alla volta le barre etiche fino a conformarle al bisogno del singolo interessato; forzatura di per sé grave, vuoi che la si ammetta anche per gli altri, in quanto moltiplicatrice di guasti, vuoi che la si contempli solo per sé, tanto ingiusto sarebbe il privilegio. Ammira tutte le buone ragioni di chi si conduce attraverso certe paludi, ma non le giustifica. Chi sono e dove vanno tutti questi impazienti che gli sfrecciano a destra e a sinistra come se lì dove sono diretti si potesse arrivare solo precipitandosi? Benché stupito da tanta agitazione, Elio segue comunque la strada e il ritmo a lui più affini; e non c’è frettoloso che possa rendere anacronistico il suo lento procedere, perché l’interesse a cogliere lungo il percorso i segni di uno svelamento che lo orienti non scema certo per il parossismo altrui. Si domanda, piuttosto, come facciano a conoscerla già così bene, la loro strada, tanto da poterla percorrere a tutta velocità. Stanno forse scappando? E se così fosse, dovrebbe sentirsi anche lui in pericolo? Ma poiché non ha la paura che gli altri sembrano avere, e stabilito che non è un incosciente né un coraggioso, vuol forse dire che la minaccia nasce da lui? Non aveva scritto una volta, in proposito, solo chi è temibile non ha paura?
Mani legnose per gesti ripetuti. Elio ritira il bucato e lo piega bene così che possa non stirarlo. Annaffia le piante. Tutto senza sentirsi amico delle cose che tocca. Il tempo ha la giusta lentezza, nessuna fretta all’orizzonte, eppure non ama quello che fa. Né impazienza né adesione, un limbo di gesti di cui ha competenza, tanta da poterli compiere quasi in automatico. Li sente come dovuti, altrimenti il suo ordine vitale, ridotto all’osso, si muta nell’orrido disordine che tesse lodi all’accidia e ne invoca la sempiterna protezione. Riduce anche il clima a una faccenda media: dosa l’apertura delle finestre, l’inclinazione delle persiane. Che non entri troppo caldo, che non ci sia troppa luce, che nulla ecceda la misura da lui consentita. Un artigiano con poche materie prime che deve far fruttare ciò di cui dispone. Come ambire all’abbondanza necessaria ai progetti, alle iniziative? Ha deciso: non butta più nulla, conserva anche le schegge della più vile lavorazione, le ricicla trasformate in altro. Raccoglie la polvere, i bioccoli di lanuggine che si formano sotto i mobili quando per troppo tempo non spazza; annusa spigoli dell’aria e si dispone nelle loro angolature. Lì, a volte, accade come un riflesso, in lui, e si apre un arco di prospettiva prima negato. Vede di traverso, si rende visibile. Non ne è compiaciuto ma grazie a una simile disposizione può riposare. Qualcosa è a posto. Eppure non basta.