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    Home » Non categorizzato » L’Europa, l’aquila e il dragone

    L’Europa, l’aquila e il dragone

    Gil Usa continuano ad utilizzare la loro presenza economica, politica e militare in Asia per arginare il potere della Cina. Ma si tratta di una strategia pericolosa, che sta avendo pesanti ripercussioni anche sull'Europa.

    Redazione</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/eunewsit" target="_blank">eunewsit</a> di Redazione eunewsit
    1 Maggio 2015
    in Non categorizzato

    di Giorgio Garbasso

    Nel 2009 Obama annunciò il tanto discusso pivot verso l’Asia. Consapevoli che il centro gravitazionale dell’economia mondiale si spostava a levante, gli americani riaffermarono il proprio desiderio di rimanere leader mondiali nell’area del Pacifico, arginando il potere della Cina (la politica del containment) con la loro presenza economica, politica e militare. Gli Stati Uniti esortarono gli europei a riprendere in mano le redini della propria zona d’influenza, affermando il progressivo disimpegno nella Nato e suggerendo una sorta di divisione transatlantica dei ruoli: gli Stati Uniti leader nel Pacifico, l’Ue, già da tempo mortificata nelle sue ambizioni mondiali, potenza regionale. Ma dal 2009 a oggi troppe guerre hanno messo in dubbio la capacità dell’Europa nel prevenire e nel risolvere le crisi nella propria zona in autonomia dalla diplomazia e dalla politica estera e di sicurezza americana. Sebbene gli Stati Uniti siano ancora coinvolti negli eventi geopolitici dell’orbita europea, la strategia del containment in Asia resta immutata. Le relazioni Cina-Usa restano la chiave di volta per comprendere il panorama odierno delle relazioni internazionali e della zoppicante politica estera dell’Unione Europea.

    Il Mare della Cina, focolaio di tensioni

    Il Mare Cinese Meridionale è il crocevia delle rotte marittime di tutto il mondo. Sta ai paesi del Sud-est asiatico come il Mediterraneo sta all’Europa. Per Carl Schmitt, politologo, giurista e filosofo, il controllo del mare è la condizione primaria alla base di ogni impero. In quel mare si dispiegano le ambizioni territoriali e i rapporti di forza tra i paesi della regione. Cina, Vietnam, Filippine, Brunei, Malesia, Taiwan si contendono oggi la sovranità di qualche atollo disabitato. Alcune isole sono poco più grandi di qualche chilometro quadrato, altre non sono nemmeno emerse al di sopra della superficie del mare. Alcune sono ricche di risorse naturali, altre meno. Secondo una recente dichiarazione di Harry Harris Jr., comandante della flotta statunitense nel Pacifico, la Cina starebbe creando di sana pianta delle isole artificiali gettando sabbia sulla barriera corallina per costruire piste d’atterraggio e attracchi navali.

    La Cina è una potenza a vocazione imperialista che cerca innanzitutto di affermare la propria forza e legittimità nella propria aria d’influenza, un po’ come gli Stati Uniti avevano fatto nel XIX secolo con la conquista di Cuba, prima di estendere il proprio controllo sull’America Latina. Non sorprende che la Cina consideri il mare in cui bagna i piedi la propria piscina privata. D’altronde, Pechino sta modernizzando la propria flotta senza nascondere le proprie ambizioni militari. Basti pensare che dal 1988 Il budget militare della Cina si è moltiplicato per otto. Rispetto al prodotto interno lordo le spese militari della Cina rappresentano per il momento solo il 2% contro il 4,7% degli americani, ma la cifra è destinata ad aumentare.

    Attualmente ben il 60% della marina militare statunitense è dislocato nell’Oceano Pacifico, se non per garantire l’assoluto controllo marittimo, quantomeno per assolvere un ruolo di bilanciamento delle forze nell’area. Ma la strategia di Obama circa il riorientamento verso l’Asia testimonia forse la consapevolezza di una progressiva e forse inevitabile perdita d’influenza.

    Gli strumenti non sono certo solo militari. L’ex segretario di Stato e neo-candidato alle prossime elezioni presidenziali Hillary Clinton parlava nel 2009 di una smart power americana, ovvero un approccio strategico che, seppure sottolineando la necessità di una forte presenza militare, investa notevolmente su alleanze, partenariati e istituzioni per espandere l’influenza e la legittimità delle proprie azioni.

    Ma quanto sia smart recuperare il linguaggio logoro e pesante da guerra fredda e parlare di un containment della Cina, soprattutto mentre ancora una volta i rapporti tra Stati Uniti e Russia si deteriorano, è ancora tutto da verificare. Una cosa è certa: le tensioni si giocano tanto sulla escalation militare quanto sulla soft power. Due esempi di cronaca recente evidenziano il soft power nelle relazioni tra Cina e Stati Uniti e fanno da rivelatore delle indecisioni dell’Ue e del limbo geopolitico nel quale si trova.

    Il containment della politica commerciale

    La strategia commerciale degli Stati Uniti nel Mare Cinese Meridionale è un ottimo esempio del containment. Nell’immaginario collettivo, e fin da Montaigne, il commercio stimola rapporti di reciproco interesse e di fiducia tra paesi, primo passo verso rapporti pacifici. Ma nelle relazioni Usa-Cina il commercio è decisamente un fattore di conflitto. Due paesi che firmano un accordo commerciale e creano rapporti preferenziali esclusivi sottraggono delle fette di mercato ai paesi terzi. Gli Stati Uniti stanno negoziando sul versante del Pacifico un accordo regionale con ben 11 paesi del Sud-est asiatico, dove la Cina è ospite non gradito, e sul versante atlantico un altro mastodontico accordo commerciale con l’Unione europea che potrebbe erodere la competitività dell’export cinese.

    L’amalgama dei pluri-accordi regionali dovrebbe sfociare in una sorta di mega-accordo transatlantico-transpacifico che permetterebbe agli americani (e ai loro alleati) di stabilire le regole dell’economia mondiale a propria immagine e misura. La Cina per entrare in questa rete commerciale dovrebbe uniformarsi agli standard di qualità americani, ai sistemi di certificazione, ai criteri di trasparenza, avviare una liberalizzazione delle imprese di Stato ecc. Semplicemente bollati da taluni come vettori di crescita economica, questi accordi commerciali sono geopolitica all’ennesima potenza. La Cina per il momento fa buon viso a cattivo gioco ma la politica estera americana le resta sicuramente indigesta e l’escalation militare nel Mare della Cina non preannuncia certo il sereno.

    In tutto ciò l’Ue tergiversa. La diplomazia europea aveva ufficialmente sostenuto il riorientamento verso l’Asia. Quando gli Stati Uniti danno il la, l’Ue dà il bemolle. Eppure l’Ue non è mai passata dalle parole ai fatti e non ha mai rafforzato la propria posizione militare come auspicato dagli americani. Alla luce di queste incertezze, per gli europei il Ttip resta un modo per attaccarsi alla locomotiva economica americana e per accertarsi che la relazione transatlantica sia preservata. Ma giocando il gioco degli Stati-Uniti, l’Europa manca di una strategia commerciale propria in Asia, e con la Cina sono invece le relazioni bilaterali tra singoli paesi a fare la differenza.

    Il calcolo costi-benefici del containment

    La dimostrazione che la strategia del containment è sbagliata sia in linea di principio che nella pratica è la reazione della Cina. Innanzitutto, secondo la regola che il nemico del mio nemico è un mio amico, grazie alla crisi in Ucraina i rapporti Cina-Russia trovano una nuova linfa, a cominciare dalla cooperazione in materia energetica. Ma l’abilità diplomatica della Cina è stata soprattutto quella di provocare l’isolamento degli Stati Uniti, e di rafforzare il ponte proprio con i suoi alleati Europei.

    La Cina sta promuovendo una campagna per l’adesione a una nuova istituzione finanziaria sotto il suo controllo, la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), che permetterebbe d’investire in colossali infrastrutture di cui la Cina ha gran bisogno, come strade e ponti, anche per ricollegare l’Europa e la Cina lungo l’antica via della seta.

    La novità questa volta è che Italia, Francia, Germania e addirittura Gran Bretagna hanno deciso di aderire a questa nuova istituzione. Altri alleati storici degli americani, come l’Australia e la Corea del Sud, sembrano ben disposti ad aderire all’Aiib, rendendo così la nuova banca, con 50 miliardi di disponibilità, quello che gli Stati Uniti temono di più: un rivale della World Bank, dell’Fmi e un’istituzione finanziaria in grado di aiutare la Cina a rafforzare il proprio profilo internazionale e la propria influenza. D’altra parte, gli Stati Uniti, coerenti con il containment, si sono opposti a più riprese a riformare la Banca mondiale e ad accordare maggiore rilevanza alla Cina. La risposta della Cina era prevedibile.

    Anche qui l’Europa è combattuta tra l’aquila e il dragone, e si trova di fronte a decisioni difficili. È ben disposta a espandere le relazioni commerciali ed economiche con la Cina ma non vuole compromettere i rapporti con il Giappone né irritare gli Stati Uniti che si aspettano una posizione più chiara e coerente. Forse, in linea con il proprio progetto politico troppo spesso dimenticato, quello di una cooperazione di paesi nel nome della pace, l’Europa potrebbe assolvere il ruolo di mediatore e vigilare che nell’area del Mare della Cina i toni non diventino troppo accesi. Ma per il momento l’Ue, vittima degli eventi, sembra schiacciata tra l’incudine e il martello.

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