La tragedia di domenica nelle acque libiche, che è solo l’ultima di una terribile serie, porta con se, come sempre, le proteste verso un’Unione europea che non fa abbastanza. Anzi, si può dire che fa praticamente niente.
Però è anche ora di smetterla di gridare alla luna, di dire che le colpe sono tutte “lassù” a Bruxelles, dove cinici funzionari e grigi commissari si limitano a qualche comunicato stampa di condoglianze ma non agiscono. La verità è che “Bruxelles”, questa volta come tante altre nelle quali governi per primi la accusano, non ha colpe. Non è che non ne ha perché ha fatto tutto il necessario e l’evento invece è catastrofico, non ne ha perché non ha i poteri per intervenire. Se facesse di più, ad esempio inviando sua sponte altre navi oltre a quelle dispiegate ora in un’operazione obiettivamente di scarso successo, violerebbe il suo mandato, si esporrebbe a ricorsi degli Stati. Forse, più semplicemente si può dire che non ha modo di fare altro.
La Ue ha le mani legate perché così hanno deciso gli Stati. Le responsabilità delle tragedie, che l’Italia, i suoi operatori professionali, i suoi volontari, i cittadini coinvolti, stanno affrontando in maniera eroica, ha nomi e cognomi precisi, e sono quelli dei capi degli Stati e dei governi dell’Europa del Nord (in particolare) che semplicemente girano la testa dall’altra parte e non intervengono in quella che non è una tragedia locale, ma bensì umanitaria di proporzioni per lo meno continentali. E’ vero, ci sono le regole di “Dublino III” il regolamento Ue che accoglie l’accordo fra gli Stati in base al quale, in estrema sintesi, i richiedenti asilo devono avanzare le loro richieste nel primo paese dove giungono. E’ vero anche che l’Italia in realtà accoglie molti meno richiedenti di altri Stati Ue, anche più piccoli. Questa è una responsabilità dell’Italia, senza dubbio.
Nel caso dei migranti che arrivano sui barconi è giusto difendersi dietro alle regole della richiesta di asilo? Quei neonati che nascono nei barconi o nelle navi che li soccorrono sono tecnicamente dei richiedenti asilo o piuttosto essere umani che hanno bisogno di protezione, qualunque sia il motivo per cui conoscono questo mondo duro e ingiusto in quei luoghi? E come loro le loro mamme, i loro papà, i compagni di viaggio.
I problemi delle migrazioni, dei loro perché, di come contenerle, sono a monte. Fanno parte della questione, ovviamente, vanno risolti, ovviamente, ma sono a monte. A mare ci sono vite da salvare ed è dovere di tutti farlo. Confusamente, senza forse molta convinzione, il ministro degli Interni Angelino Alfano tempo fa tentò di sostenere che la questione riguarda l’Onu, che le tragedie del mare, in queste dimensioni, non sono questioni locali. Aveva ragione, ma la questione è morta lì. Come migliaia di migranti.
E’ dunque il momento che dato che i barconi navigano in mari europei, dato che è evidente che l’Italia non ha i mezzi per garantire l’assistenza, possibilmente la sopravvivenza, di tutte queste persone, i partner europei mettano in pratica quella “solidarietà” sbandierata in trattati e parole e aiutino non l’Italia, ma quelle persone, quei disperati a non morire. Li aiutino in mare, li aiutino poi in terra accogliendone (e anche Dublino III lo permette) o aiutando concretamente ad accogliere. Li aiutino lavorando a eradicare le ragioni per le quali sono costretti a tentare questi viaggi che spesso sono senza speranza (basta con l’ipocrisia di chiamarli invece “viaggi della speranza”).
Vorrei sentire Matteo Renzi dire che il premier finlandese, o quello olandese, o la cancelliera tedesca devono mettere mano al portafogli e aiutare a salvare queste persone. E vorrei anche sentirlo dire che è ora di missioni congiunte, magari coordinate da Federica Mogherini, negli Stati di provenienza e transito per fare quello che si deve per non dare più a queste persone il disperato bisogno di fuggire lontano.