di Thomas Fazi
In un suo recente articolo, Nouriel Roubini scrive che “gli ultimi dati sembrano suggerire che la ripresa dell’eurozona è finalmente a portata di mano”. Le ragioni di tale ripresa, scrive l’economista, sono abbastanza ovvie: in primo luogo la decisione della Bce, a lungo rinviata, di avviare un “aggressivo” programma di quantitative easing (esteso anche ai titoli di Stato), combinato con una politica di tassi negativi, al fine di contrastare la spirale deflazionistica. Questo ha avuto l’effetto immediato di far crollare sia il valore dell’euro che i tassi di interesse sui titoli di Stato, sia nel centro che nella periferia; inoltre, le borse hanno reagito entusiasticamente. Questo, unito alla caduta del prezzo del petrolio, ha dato un impulso alla crescita.
Roubini imputa la ripresa anche ad altri fattori: la politica di credito facile della Bce, che sta di fatto sovvenzionando i presiti bancari nell’area euro; l’allentamento delle misure di austerità (e dei connessi effetti di fiscal drag); e l’avvio dell’unione bancaria, in virtù del quale le banche oggi hanno maggiore liquidità e capitale da prestare al settore privato. “Grazie all’insieme di questi fattori, l’economia dell’eurozona è tornata a crescere, e il suo mercato azionario ha superato persino i livelli di quello statunitense”, scrive Roubini.
L’economista, insolitamente ottimista sulle sorti dell’eurozona, riconosce però che “una crescita robusta e sostenuta presenta ancora molti ostacoli”. A partire dall’instabilità della situazione politica: un’uscita, magari accidentale, della Grecia dall’eurozona – quello che Roubini chiama “Grexident” – avrebbe ripercussioni economico-finanziarie molto negative. Altrettanto pericolosa viene giudicata un’eventuale vittoria elettorale di un “partito populista anti-euro” – categoria vaga all’interno del quale Roubini fa rientrare un po’ tutti, da Podemos al Movimento 5 Stelle, dalla Lega al Front National – in uno dei principali paesi europei: Spagna, Italia o Francia.
Anche la debole ripresa occupazionale pesa sulle prospettive di ripresa dell’euro, nota Roubini. Secondo le stime della Bce, il tasso di disoccupazione dell’eurozona nel 2017 sarà ancora pari al 9.9 per cento, ben al di sopra della media pre-crisi del 7.2 per cento. Un ulteriore ostacolo è rappresentato dall’instabile contesto geopolitico lungo i confini dell’Europa, con numerosi focolai di tensione, che potrebbero rapidamente degenerare, sia a nord-est – in Ucraina, nei Baltici e nei Balcani – che a sud, in Medio Oriente.
C’è poi il problema dei crescenti livelli di debito, sia pubblico che privato, nei paesi della periferia, a causa soprattutto della debole (o negativa) crescita del Pil; a questo si aggiunge l’impostazione della politica fiscale dell’eurozona, che continua ad essere troppo restrittiva, in buona parte a causa del rifiuto della Germania di adottare uno stimolo fiscale. Infine, Roubini imputa la debolezza della ripresa alla lenta implementazione delle riforme strutturali, e all’insistenza su quelle riforme – liberalizzazioni del mercato del lavoro e riforme pensionistiche – che rischiano di indebolire ulteriormente la domanda aggregata.
Proprio la debolezza della domanda interna, nota Roubini, sta alimentando la crescita esponenziale del surplus delle partite correnti dell’eurozona. “Alla luce di ciò, la politica monetaria della Bce, che punta ad indebolire ulteriormente l’euro, assume le fattezze di una politica beggar-they-neighbour, e rischia di determinare tensioni commerciali e valutarie nei confronti degli Stati Uniti e degli altri partner commerciali dell’Europa”, conclude Roubini.
Altri commentatori sono ancora più scettici di Roubini in merito alla retorica della ripresa europea. Philippe Legrain, ex assistente economico di Barroso, scrive:
A prima vista l’economia dell’eurozona sembra essere finalmente in ripresa. Le borse sono in rialzo, la fiducia dei consumatori è risalita e c’è ampia convinzione che la diminuzione dei prezzi del petrolio, un euro più a buon mercato e il quantitative easing della Banca centrale europea possano contribuire a rilanciare la crescita. Il presidente della Bce Mario Draghi sostiene che “è in corso una ripresa sostenuta”, mentre i policymaker di Berlino e Bruxelles si attaccano ai deboli segni vitali di Spagna e Irlanda per confermare che l’amara medicina a base di consolidamento fiscale e riforme strutturali ha funzionato come previsto. A uno sguardo più attento, però, appare chiaro che tale miglioramento è solo modesto e probabilmente transitorio, e che non dipende dalle politiche promosse dalla Germania.
Come fa notare Legrain, anche se, secondo alcune stime, l’economia dell’eurozona potrebbe ora crescere dell’1.6 per cento annuo, registrando un incremento rispetto allo 0.9 per cento del quarto trimestre del 2014, parlare di “ripresa” non è del tutto corretto, visto che “si tratta di un risveglio molto più lento che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna”, che “l’economia dell’eurozona è diminuita del 2 per cento rispetto a sette anni fa” e, soprattutto, che “il sollievo è destinato a durare poco”.
Tanto per cominciare, c’è da considerare che l’incremento una tantum derivante dal calo dei prezzi del petrolio si sta già sgonfiando. Lo stesso dicasi per gli effetti di una moneta più competitiva, destinati a essere molto più deludenti del previsto. Per tre motivi: 1) il fatto che le esportazioni dell’eurozona dipendono sempre più dalle catene di fornitura globali, e quindi una valuta più economica dà meno impulso di prima; 2) la stagnazione della domanda globale; e 3) il fatto che, comunque, le esportazioni rappresentano solo un quinto dell’economia dell’eurozona, ed è dunque improbabile esse, da sole, daranno adito ad una forte ripresa mentre la domanda interna rimane debole. Secondo il modello della Bce, infatti, il deprezzamento dell’euro nell’anno passato, pari al 10 per cento (in termini effettivi reali), farà aumentare la crescita quest’anno di un mero 0.2 per cento.
Anche i vantaggi del quantitative easing, scrive Legrain, “sono destinati a rivelarsi effimeri”, per un semplice motivo (che abbiamo affrontato più volte sulle pagine di questo giornale): “Il declino dei costi di finanziamento dei governi non darà una forte impulso alla crescita poiché le norme Ue precludono un’espansione fiscale”. Secondo la Commissione europea, infatti, la posizione fiscale dell’eurozona manterrà un orientamento sostanzialmente neutrale quest’anno, pur se con ulteriori strette in Irlanda, Francia e Italia. Inoltre, la situazione dei prestiti è sostanzialmente ferma (e continua a peggiorare nel sud dell’Europa). Finché le banche zombie saranno gravate da prestiti irrecuperabili, la situazione non cambierà di molto.
Infine, Legrain smonta l’idea – molto diffusa nei media – che l’espansione relativamente rapida di Spagna e Irlanda sia da imputare alla ricetta tedesca del consolidamento fiscale e delle misure volte ad aumentare la competitività dell’export:
Di fatto, niente potrebbe essere più lontano dalla verità. La Spagna non è certo un esempio di aggiustamento fiscale ben riuscito. Al contrario, la sua ripresa ha coinciso con l’allentamento della rigida austerità imposta nel 2011-13, che ha incoraggiato le famiglie a spendere di più, malgrado la stagnazione dei salari. Pur così, l’economia del paese ha perso il 5.7 per cento rispetto a sette anni fa. Il 23.7 per cento degli spagnoli – uno su due tra i giovani – è disoccupato, mentre un numero molto maggiore ha abbandonato la forza lavoro. Nemmeno l’Irlanda – l’economia Ue che ha registrato la crescita più rapida lo scorso anno – conferma l’efficacia della cura tedesca. Si parla, dopotutto, di un’economia piccola e molto aperta, il cui crescente settore dell’export sta beneficiando di forze esistenti – tra cui, una bassa tassazione delle attività produttive, una forza lavoro specializzata e un’economia flessibile – e condizioni esterne favorevoli, soprattutto la forte ripresa dei suoi mercati principali, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Malgrado ciò, l’economia è diminuita rispetto a prima della crisi, il tasso di disoccupazione è a due cifre, la domanda interna resta depressa e il conto del salvataggio bancario di 64 miliardi di euro, ingiustamente imposto ai 2.2 milioni di contribuenti irlandesi, continua a incombere sul paese.
“L’economia dell’eurozona è destinata a migliorare nel 2015, ma non grazie alle politiche richieste dalla Germania, ed è probabile che si tratti di una ripresa temporanea, non dell’inizio di una rimonta sostenuta”, conclude Legrain. Per uscire dalla balance-sheet recession in cui si trova, l’eurozona avrebbe bisogno di ripulire i bilanci delle sue banche, ridurre lo schiacciante eccesso di debito (soprattutto privato), rimediare all’enorme deficit di investimenti, eliminare gli ostacoli all’impresa e affrontare gli effetti deflazionistici del mercantilismo tedesco. Tutte cose che al momento non sembrano essere in cima all’agenda politica.