Quando in Nove Settimane e Mezzo Kim Basinger chiede a Mickey Rourke cosa fa per campare lui risponde: “I make money with money”, faccio soldi con i soldi. E’ il 1986, la finanza americana sta andando alla conquista del mondo, in una corsa destinata a durare più di vent’anni, fino allo schianto finale di Lehman Brothers. Qualche giorno fa i titoli dei grandi giornali finanziari, dal Financial Times al Wall Street Journal, erano tutti per General Electric che abbandona la finanza e torna alle sue radici industriali. Nel 2007, al culmine della bolla speculativa, la finanza faceva più della metà dell’utile lordo del colosso americano, 12,2 miliardi di dollari su un totale di 22. A fine 2014, dopo sette anni di crisi, dalla finanza arrivava meno di un terzo dei profitti, 7 miliardi su quasi 25. Sempre una montagna di soldi, ma General Electric ha deciso che era venuta comunque l’ora di dire basta. Basta finanza, basta speculazioni immobiliari, si torna a fare solo industria. Quello che sta scrivendo General Electric sembra solo l’ultimo capitolo di una storia che sta cambiando l’America e in qualche modo il mondo intero.
Forse stiamo davvero entrando nella Terza Rivoluzione Industriale, ma non somiglia molto a quella immaginata da Jeremy Rifkin nel libro pubblicato nel 2011 con lo stesso titolo. Rifkin sogna un mondo di micro-produttori di energia che grazie a Internet consente all’umanità di traghettarsi in un futuro economicamente sostenibile. Quella che si sta costruendo in America sembra una rivoluzione molto meno catartica e molto più capitalistica, solo che cambia il paradigma di come viene impiegato il capitale: sempre più per produrre beni e servizi a costi sempre più bassi e in modo sempre più efficiente e sempre meno cercando di far soldi solo ed esclusivamente con i soldi –possibilmente quelli degli altri. Il numero uno di GE Jeff Immelt lo ha spiegato così: c’è stato un cambiamento epocale nei mercati finanziari, è sempre più difficile portare a casa ritorni accettabili con la finanza, ma c’è un mercato per i prodotti che vendiamo, e per far prosperare il nostro business.
Gli Stati Uniti stanno uscendo dalla crisi re-industrializzandosi poderosamente. Stanno, per esempio, diventando la fabbrica di automobili del mondo. Sono sempre più i produttori che scelgono gli Usa per localizzare nuove fabbriche. L’ultimo è stato Volvo Car, oggi a proprietà cinese, che ha annunciato un investimento da 500 milioni di dollari per costruire un nuovo impianto e sta selezionando lo Stato americano dove localizzare le produzioni dopo aver scartato l’opzione Messico. Qualche tempo fa era stata la Daimler ad annunciare la costruzione di una fabbrica da mezzo miliardo di dollari in South Carolina, e anche qui la scelta era tra Messico e Usa. I bassi salari messicani non attraggono più, perché alla fine il costo per unità di prodotto è più alto. E non sono solo i costi contenuti a spingere i produttori in Usa. C’è anche il vantaggio di andarsi a piazzare in un mercato che tira, e la stabilità valutaria garantita dal dollaro forte. I costi sono comunque l’incentivo più forte: di recente anche Volkswagen ha aperto un impianto in Tennessee, dove è riuscita a spuntare un costo per unità di prodotto molto conveniente. E la BMW ormai produce la sua serie X, quella che si vende meglio e con margini più alti in tutto il mondo, quasi esclusivamente in Usa. Per non parlare della scelta americana di Fiat.
La nuova industrializzazione americana non riguarda solo l’auto. Dall’inizio della grande recessione, l’occupazione nell’industria manifatturiera ha tenuto ed è cresciuta. E nel settore dei beni durevoli, come appunto le auto, negli ultimi tempi si è visto qualcosa che non si vedeva da decenni. Dal 2010 al 2012 l’occupazione nell’industria è cresciuta di più rispetto ai nuovi posti di lavoro dell’intera economia. Non succedeva dagli anni 70, quando avevano cominciato a diminuire costantemente gli occupati nell’industria a favore dei servizi. Una tendenza di quasi mezzo secolo che ha cominciato a invertirsi.
Un’America che ridimensiona la finanza e si riconverte all’industria potrebbe essere una buona notizia anche per l’Europa. Che tutto sommato ha conosciuto i suoi anni migliori prima della scommessa sulla finanza, proprio grazie al grande motore produttivo sull’altra sponda dell’Atlantico che girava al massimo negli anni 50 e 60 del secolo scorso. L’Europa produce tecnologie e componenti essenziali per la crescita industriale americana, soprattutto in due paesi: la Germania con i suoi colossi e l’Italia con le sue medie imprese. C’è in giro una leadership europea visionaria e capace di fare sistema giocandosela alla pari con gli americani come quella di allora? Da come è stata giocata un anno fa la partita sulla divisione energia della francese Alstom, contesa dai tedeschi di Siemens e dagli americani della General Electric, e poi finita proprio in mano a questi ultimi, si direbbe di no.